BIOGRAFIA DETTAGLIATA

1932-1942

Giovanni Raboni nasce venerdì 22 gennaio 1932 a Milano, da una famiglia «di Milano da generazioni, però con ascendenze un po’ più lontane, bergamasche e lombarde» (a P. Del Giudice, «Galatea», novembre 1997). La famiglia abita in via San Gregorio, in un quartiere a cui Giovanni rimarrà sempre legato:

Sposandosi, i miei genitori andarono ad abitare in una casa costruita da poco che dava sul terrapieno della ferrovia. Era una specie di esilio per loro che da sempre, con le loro famiglie, avevano abitato dentro o, al massimo, lungo la Cerchia dei Navigli: via Andegari, via Pietro Verri, via Carducci, la “casa rossa” all’angolo di corso Venezia. Dopo la guerra c’era stata, mi raccontava mio padre, una spaventosa crisi degli alloggi; poi la città aveva cominciato a espandersi, a complicarsi, a sfigurarsi. Bastioni e mura spagnole erano stati spianati, i Navigli coperti; prati e orti erano diventati quartieri. Certo, non stare più “in centro”, stare addirittura “dopo la stazione” era una diminuzione non da poco, una specie di proletarizzazione per dei milanesi di vecchia famiglia borghese. Ma quando nacqui io, all’inizio degli anni Trenta, molte cose erano cambiate, altre s’erano trasformate in immagine, in mito. Le finestre di casa nostra non davano più sui binari; la stazione […] ci stava ormai alle spalle. Il terrapieno della ferrovia aveva lasciato il posto a un terreno vago sul quale, di tanto in tanto, spuntavano le effimere architetture di circhi e lunapark. Ma già, intorno, sorgevano case dalle facciate di marmo, minigrattacieli destinati a ospitare i nuovi ricchi della piccola e media industria (la grande era ancora saldamente in mano alle dieci o cento famiglie che occupavano i palazzi gentilizi di via Durini, via Borgonuovo, via Bigli). La via dove abitavamo noi, via San Gregorio, diventò così una strana e un po’ tetra zona di frontiera: da una parte, appunto, i condominî ingenuamente fastosi della borghesia mercantile; dall’altra, le lugubri case d’affitto di negozianti, piccoli professionisti, impiegati, ma con alle spalle, per fortuna, l’affascinante, pullulante casbah della prima emigrazione meridionale: trafficanti in stoffe e in tappeti, barbieri, mediatori di affari sibillini, ladri, ricettatori… Ecco, questa è la Milano nella quale ho cominciato a vivere e che ancora adesso, adesso che non ci abito più da molto tempo, sento di amare in modo più completo, più viscerale di qualsiasi altra zona o quartiere della città. Porta Venezia: strade grigie e dritte gremite di negozi d’ogni tipo, pensioncine, alberghi a ore, trattorie pseudotoscane; lo stupendo piazzale ventoso, quasi marino con le bancarelle di libri usati, gli sfiatatoi del diurno, i neoclassici caselli del dazio di Porta Orientale; i “giardinetti” di via Benedetto Marcello, con le spettrali, civettuole villette a due piani, luoghi deputati di inquietanti e rispettabili delitti immaginari; l’immenso, variegato, pigro fiume di corso Buenos Aires, la Shangai, la San Francisco della mia adolescenza, con i suoi cinematografi profondi come caverne, i labirintici negozi di scarpe a buon prezzo, le vetrine di ANIMALI VIVI assediate da una piccola folla di bambini, domestiche somale, pensionati, magnaccia… (G. R., Appestata ma bellissima, «Corriere della Sera», 3 aprile 1979).

Giovanni è il secondogenito, dopo Fulvio (1927-2002), di Giuseppe (1891-1952) e Matilde Sommariva (1893-1954), e porta il nome del nonno materno. Quello paterno, Fulvio, aveva studiato alla Regia Scuola Superiore di Commercio di Venezia. Divenuto procuratore dei fratelli Bocconi, gli viene affidata dalla famiglia la ricerca di Luigi, figlio di Ferdinando, scomparso nella battaglia di Adua (1890); ma non potrà che raccogliere notizie sulla sorte sfortunata del giovane. Si tramanda in famiglia che si debba a Fulvio il suggerimento a Ferdinando Bocconi di ricordare la memoria del figlio con l’istituzione di un’università di studi economici (nel 1902) che diventasse una sorta di Ca’ Foscari milanese.
Fulvio Raboni sposa in prime nozze Giuseppina Crespi (appartenente a una famiglia di possidenti della zona di Saronno). Dal matrimonio nasce Giulio, che sarà una figura centrale nell’infanzia e nella giovinezza di Giovanni. Alla morte di Giuseppina, Fulvio sposa la sorella minore di questa, Giulia, madre di Giuseppe e di Angela (morta nel 1917 durante l’epidemia di febbre spagnola).
Giuseppe Raboni svolge la sua carriera professionale come funzionario al Comune di Milano: per diversi anni come Capo ripartizione dell’Educazione, infine come Vice Segretario Generale. Sposa nel 1926 Matilde Sommariva, proveniente da una famiglia di livello borghese meno elevato, e portata piuttosto verso il mondo dell’arte. Matilde è molto legata alla sorella maggiore Maria, moglie del musicista Carmine Guarino (una cui opera, Madama di Challant, andò in scena alla Scala il 9 marzo 1927), e ne frequenta la casa di corso Magenta con i figli, che rimarranno sempre affezionati al cugino Giandomenico (1920-1983).
Giovanni riceve da parte della famiglia un’educazione cattolica. Sia la casa del nonno Fulvio che quella paterna sono dotate di ricche biblioteche.Ascolta dalla voce del padre e della madre le opere di Tessa, Porta, Manzoni:

Mio padre teneva I promessi sposi – una bella ristampa dell’edizione del ’40, con le illustrazioni di Gonin, che era stata di suo padre – sul tavolino accanto al letto. Ho cominciato a leggere Manzoni prima di saper leggere, per interposta persona; e non ho più smesso (G. R., Raboni Manzoni, 1985).

Nell’ottobre del 1938 è iscritto alle Scuole elementari Cardinale F. Borromeo di via Casati, che frequenterà fino alla fine della terza (la sua figura rimane impressa nella memoria della maestra, Giuditta Rinaldi, che il poeta ritroverà, quasi centenaria, in anni recenti). Frequenta poi la quarta elementare all’Istituto Gonzaga di via Vitruvio, dove già studia il fratello («ricordo che lì ebbi come confessore don Carlo Gnocchi, figura notevole e uomo dotato di un certo carisma»: a D. Piccini, cit.).
La famiglia passa le vacanze tra Recco (in giugno e in agosto) e la casa di Sant’Ambrogio Olona (tra Varese e il Sacro Monte), presa in affitto dal padre («le case in campagna, anche per una famiglia agiata ma non ricca come la mia, si affittavano per tutto l’anno, non si compravano»: a P. Del Giudice, «Galatea», cit.) per la prossimità alla villa dei facoltosi cugini Volpato, ai quali Giuseppe Raboni è legato da una forte amicizia.

1942-1945

Nel tardo pomeriggio del 24 ottobre 1942 l’allarme antiaereo suona alle 17.57. Appena tre minuti dopo comincia il primo bombardamento diurno di Milano. Le bombe colpiscono anche nei pressi di via San Gregorio, in corso Buenos Aires:

Quel pomeriggio d’ottobre del ’42 tutto prese d’un tratto un altro ritmo, un altro senso. Già il fatto che i sei colpi di sirena arrivassero così scandalosamente fuori orario, mentre c’era chi giocava e chi faceva i compiti e chi preparava la cena, mentre dalle finestre filtrava ancora la luce del crepuscolo e mio padre non era ancora tornato dall’ufficio, insomma mentre la casa e la città erano immerse nella loro ostinata normalità, mi parve qualcosa di atrocemente indebito, una sorta di sacrilegio. Abituati a scendere sottoterra trasportati e come protetti dall’onda del dormiveglia, stavolta dovevamo scenderci in piena coscienza, da svegli, da “vivi”. E più in fretta del solito, anche: perché prima che la sirena finisse di sbraitare già echeggiavano, non ricordo se più sorde o più laceranti, più crudeli o più assurde, le prime terrificanti esplosioni (G. R., Nel rifugio mi chiedevo: che cosa ho fatto di male?, «Corriere della Sera», 21 marzo 2003).

L’indomani Giuseppe Raboni trasferisce la famiglia a Sant’Ambrogio, e da qui torna ogni mattina a Milano:

Uno dei ricordi più toccanti di quegli anni è il fatto che mio padre – che non poteva assentarsi da Milano perché il suo lavoro lo teneva a Milano –, però veniva a dormire ogni sera qua. Cioè ogni sera partiva da Milano, in condizioni spesso disagiate e anche pericolose perché c’erano i bombardamenti, i mitragliamenti – viaggiare in treno, viaggiare in corriera era una cosa abbastanza pericolosa –, lui ogni sera, tutti gli anni di guerra, è venuto a dormire qui con noi; e alla mattina, all’alba, ripartiva. Questa è una cosa che allora in qualche modo mi sembrava normale; poi ho capito che era una forma di piccolo ma straordinario eroismo. Era il luogo – qui il sagrato – dove si ogni sera si venivano a prendere le persone che tornavano da Milano. Io venivo ogni sera incontro a mio padre che arrivava qui davanti con il tram da Varese, dopo aver preso il treno da Milano a Varese. E poi da qui, come da una sorta di palco, si assisteva al rito annuale del pellegrinaggio al Sacro Monte, con i pellegrini che passavano la mattina festosi sotto il sole e tornavano ogni pomeriggio, sempre, regolarmente sotto la pioggia: perché questo è il clima di questi luoghi […]. Ma il ricordo più struggente è proprio quello del ritorno serale di mio padre. Era una grande festa, per me, per noi; ed era il segno di un’incredibile fedeltà da parte sua, ripensandoci; e di questo parla una poesia che si intitola La guerra (E. Bertazzoni, Giovanni Raboni. Il futuro della memoria, 1999; trascrizione di R. Z.).

Giovanni frequenta la quinta elementare nella scuola del paese. Quando si pone, nell’autunno successivo, il problema della continuazione degli studi, Giuseppe Raboni preferisce che il figlio non si rechi a Varese ma studi privatamente a Sant’Ambrogio, prendendo anche lezioni di francese. Sono soprattutto anni di intense e appassionate letture:

C’era sempre, quasi sempre, mi ricordo, in estate, […] questo clima umido, con la pioggia che non viene ma potrebbe sempre venire; grande fresco, grande silenzio. È stato l’unico mio periodo in cui ho vissuto le stagioni davvero: cioè ho capito che c’è un rapporto vero con la natura; poi in città le stagioni si perdono. E sono stati anche anni di grandi letture. Io sono stato un lettore abbastanza precoce. Ho cominciato a leggere allora, e mi sembra di aver letto soprattutto in quegli anni. Poi negli anni successivi e fino a adesso mi sembra che sto soltanto rileggendo quello che ho già letto. Naturalmente non è così, però l’impressione è un po’ quella. Non c’è come questo tipo di clima, questo paesaggio, questo grigio, per favorire quello stato di grazia che è per me la lettura […]. L’impressione è appunto di aver letto tutto qui: naturalmente non è vero. Molte cose le ho lette dopo, naturalmente; e non ne sospettavo nemmeno l’esistenza. Per esempio, una delle esperienze fondamentali della mia vita è stata la lettura di Proust, che poi ho anche tradotto (l’ho letto negli anni ’50). Però l’impressione è quella; e sicuramente ho letto, non capendone probabilmente nulla, ma insomma ho letto tutto Shakespeare, per esempio, nei tre volumi dell’edizione Sansoni che è uscita in quegli anni, negli anni di guerra. Ero un lettore onnivoro e incosciente che avevo dieci anni, dodici anni. Ho letto naturalmente Dickens, che adoravo e che adoro ancora; ma anche Dostoevskij, anche Tolstoj. I capisaldi della mia passione per la letteratura e per il romanzo, soprattutto, li ho divorati tutti allora. Ho messo il primo strato, ecco, nella mia passione per la letteratura, e per il romanzo in particolare (E. Bertazzoni, Giovanni Raboni. Il futuro della memoria, cit.).

Il primo consigliere è il padre, che trasmette a Giovanni la passione per la grande narrativa europea dell’Ottocento (russa e francese in particolare), ma i cui gusti sono aperti all’apprezzamento dei contemporanei (in particolare Vittorini). Gli si affianca in seguito il cugino Giandomenico Guarino (lettore attento della narrativa e della poesia contemporanea), che dopo l’8 settembre ha trovato rifugio nella casa di Sant’Ambrogio. Giovanni legge, tra gli altri, Piovene (l’autore preferito dal cugino), Bontempelli («ma nell’ordine inverso rispetto al canone di Baldacci»: a R. Zucco), Buzzati (I sette messaggeri e Il deserto dei Tartari), Francesco Chiesa (Tempo di marzo); e, per la poesia, Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli. La lettura di Montale cade, memorabilmente, nell’ultimo inverno di guerra.
È il padre a rifornire di libri la famiglia con intelligente attenzione per le novità editoriali: arriva per questa via a Sant’Ambrogio anche una copia della clandestina Americana di Vittorini (uscita da Bompiani nel ’42). Ma ben presto Giovanni e il fratello cominciano a visitare le librerie di Varese:

Erano gli ultimi mesi di guerra e dunque, per la mia famiglia e per me, di sfollamento da Milano, e io andavo quasi ogni pomeriggio, da ragazzino perdutamente innamorato della letteratura, in una libreria di Varese i cui scaffali erano gremiti, assai più che di novità, di edizioni degli anni Venti e Trenta che farebbero oggi la gioia di un collezionista. Ad attrarre la mia attenzione erano soprattutto i poeti contemporanei: non tanto gli autori già canonici e dunque presenti (da Cardarelli a Montale, da Ungaretti a Quasimodo) fra i libri di mio padre, bensì quelli talmente nuovi che nessuno, a casa mia, li aveva sentiti nominare. Era, ovviamente, un azzardo; ma fu così che scovai e potei leggere, a tredici anni, libri destinati a segnare la mia vita come Realtà vince il sogno di Betocchi, le Poesie di Sereni nell’edizione Vallecchi del ’42, e […] La barca di Luzi: libri iniziali, tutti, della storia dei loro autori, e certo non paragonabili ai capolavori della loro maturità, ma che mi è tuttora impossibile riaprire senza essere investito dall’impeto di novità e d’ardimento di cui erano portatori (G. R., Mario Luzi, gioventù di poeta, «Corriere della Sera», 10 ottobre 2001).

La scrittura in versi si dà inizialmente come istintiva prosecuzione della lettura di versi altrui.

Ogni tanto mi chiedono – e qualche volta chiedo anche a me stesso – perché si scrivono poesie, come si comincia a scrivere poesie, come si scopre di avere bisogno della poesia […]. È un’esigenza che nasce, io credo, da un desiderio di emulazione. Si leggono poeti che si ammirano da ragazzi, da adolescenti, e si vuole essere come loro […]. Naturalmente, a monte ancora c’è una qualche mancanza, una qualche ferita, perché io credo che se uno fosse perfettamente felice e in pace con se stesso non gli verrebbe in mente di scrivere poesie, e probabilmente nemmeno di scrivere musica o di fare dell’arte in generale […]. Naturalmente, ancora prima bisognerebbe capire perché si prova piacere a leggere la poesia. Foscolo diceva che lettori di poesia si nasce; io a volte aggiungo un po’ per provocazione che forse poeti si può diventare. Lettori di poesia non si può diventare, si nasce: cioè si nasce con il gusto della poesia e con il piacere e l’emozione della poesia così come si nasce con l’orecchio per la musica. Partendo da lì, poi la poesia diventa un fatto di necessità interiore. All’emulazione, al piacere di fare come gli altri, a poco a poco subentra il bisogno di parlare di sé, di dire qualcosa di sé (G. R. a Pantheon. Le ragioni della vita, RAI Nettuno SAT 1, 18 settembre 2004; trascrizione di R. Z.).

Compone poemetti di emulazione pascoliana su vari argomenti: uno è ispirato ai Fioretti di S. Francesco, un altro alla vita di Giotto (su sollecitazione di un libro de Il libro dei sette colori. Storie serie e gaie d’artisti di Guido Edoardo Mottini; dello stesso autore legge con passione anche Con sette note. Figure di grandi musicisti presentate ai giovani). Ma l’aggiornamento della pratica della scrittura in versi sulle letture poetiche che si succedono è continuo: si ha così, per esempio, anche un significativo momento di imitazione quasimodiana. La famiglia segue questi esercizi insieme con discrezione e interesse. Particolarmente gratificante, nel ricordo del poeta, la lettura di alcuni suoi componimenti da parte di padre Alfonso, insegnante del fratello in visita a Sant’Ambrogio, alla famiglia riunita in giardino.
Ma anche la musica è tra gli interessi del giovane Raboni, che partecipa alle sedute d’ascolto di dischi a 78 giri organizzate in paese dall’avvocato Marocco, e ascolta Brahms e Chopin suonati al pianoforte dalla cugina Maria Luisa Volpato (detta in famiglia Getti). Con lo sfollamento ha però dovuto interrompere lo studio del pianoforte intrapreso per desiderio della madre negli anni precedenti: anche per questo

il bisogno d’un qualche concreto fare estetico – un bisogno che avvertivo sin da quando avevo acquistato una prima, embrionale consapevolezza di me – si riversò sulla letteratura, e il mio amore per la musica si trasformò in “amore da lontano”, senza possesso né speranza di possesso, come quello cantato dai poeti medievali (G. R., Una sonata di Beethoven per riconciliarsi con il mondo, «Corriere della Sera», 8 agosto 1999).

1945-1950

Poche settimane dopo la Liberazione la famiglia Raboni ritorna nella casa di via San Gregorio:

Finita la guerra, la mia famiglia è tornata a vivere a Milano, e per me è stata una grandissima emozione, perché la dimensione della città che avevo vissuto da bambino l’avevo quasi dimenticata. È stata una riscoperta ed è stato anche un innamoramento; mi sono proprio innamorato delle possibilità anche fantastiche della dimensione cittadina, della dimensione urbana. Era anche, poi, un clima straordinario, quello del dopoguerra, di grande vitalità, di grandi speranze, di grandi rinnovamenti. Quindi è stato un periodo per me straordinario in modo diverso: in modo, appunto, di coinvolgimento nella realtà; mentre gli anni della guerra erano stati in qualche modo un periodo di sospensione della realtà e di vita nel fantastico, nel privato, nella intimità (G. R. a Pantheon, cit.).

Nell’autunno del 1945 Giovanni è iscritto al liceo Parini. Frequenta il biennio ginnasiale con molte assenze, e accede alla prima liceo con esame di ammissione.
In prima liceo, nell’ottobre del ’47, ha come compagni di classe la futura prima moglie, Bianca Bottero, e Arrigo Lampugnani (poi Lampugnani Nigri), che sarà suo datore di lavoro e tra i suoi primi editori. È in casa di Arrigo che Raboni conosce, nel 1948, Vittorio Sereni.
Tra gli insegnanti ci sono Elena Ceva (professoressa di italiano, che stima moltissimo Giovanni) e Siro Contri (filosofia). Si iscrive al Parini per il secondo anno del liceo ma interrompe la frequenza. Si iscrive per la terza liceo al Carducci, ma frequenta le lezioni solo per poche settimane.
Parallelamente a questa discontinua carriera scolastica – percepita con un senso di inutilità, e incapace di suscitare vere passioni culturali – inizia fin dai primi mesi del dopoguerra un’educazione culturale alternativa, che si svolge secondo liberi percorsi negli ambiti della letteratura, del cinema, del teatro e della musica. Della letteratura innanzitutto. Giovanni e Fulvio Raboni diventano frequentatori assidui delle librerie milanesi, e hanno modo di legare la passione per la lettura alle occasioni di una attualità vivacissima ed eccitante, che muta fondamentalmente l’“atemporalità” con cui l’opera letteraria si manifestava nella piccola comunità di Sant’Ambrogio. Giovanni si fa guidare ora anche dalle offerte di una ricchissima produzione editoriale:

A chi, come me, ha cominciato a leggere negli anni Quaranta, non sarebbe mai venuto in mente che l’azzurro dei «Narratori stranieri tradotti» di Einaudi, l’arancione con figure della «Corona» Bompiani o le bande variamente colorate dello «Specchio» mondadoriano potessero custodire un romanzo, un racconto, una raccolta di versi indegni dell’attesa. E il bello è che avevamo ragione, che fin quando quelle collane non scomparvero o non subirono tristi metamorfosi non andammo incontro, che io ricordi, a una sola vera delusione… (G. R., Contraddetti, 1998).

Se gli anni di Sant’Ambrogio avevano procurato innanzitutto la confidenza con i classici della narrativa dell’Ottocento (con saltuarie incursioni nella contemporaneità), è del primo dopoguerra il contatto con la grande poesia europea, mediato principalmente dalla collana «La Fenice» che Attilio Bertolucci dirigeva dal 1939 presso l’editore Ugo Guanda. Il giovane Raboni legge in traduzione, ma con profondo interesse per il testo a fronte; si esercita quindi in versioni alternative, e inizia precocemente la riflessione sui problemi della traduzione letteraria:

Forse i lavori di traduzione che hanno influito di più sul mio lavoro di poeta sono quelli fatti in gioventù, mai pubblicati e poi distrutti: traduzioni dai poeti latini (soprattutto Catullo) e anglosassoni (soprattutto Eliot). Le mie traduzioni “pubbliche” sono arrivate, in un certo senso, a cose fatte, quando ero già più o meno in possesso dei miei strumenti espressivi (G. R. in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Bulzoni, Roma 2004).

Fondamentale l’antologia eliotiana nella traduzione di Luigi Berti, che costituisce un apporto decisivo alla formazione del giovane poeta in combinazione con l’influsso, poco più tardo, di Pound (i Canti pisani tradotti da Alfredo Rizzardi escono da Guanda nel ’53).
Insieme, si approfondisce e si aggiorna la conoscenza della letteratura americana. Ai classici Melville e Hawthorne degli anni di Sant’Ambrogio si affiancano ora Hemingway, Steinbeck, Faulkner, Saroyan, letti con tempestività nelle traduzioni presentate dai vari editori italiani. Ma continua anche la lettura della poesia italiana contemporanea (nel ’47 escono Diario d’Algeria di Sereni, Quaderno gotico di Luzi, Notizie di prosa e di poesia di Betocchi; nel ’48 il Quaderno di traduzioni di Montale), lettura che è sistematica per i poeti pubblicati nello «Specchio» (fanno qui la loro comparsa, tra il ’44 e il ’50, titoli capitali di Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Saba, Sinisgalli, Sbarbaro, Vigolo, De Libero, Gatto, Solmi). Continua inoltre ad essere un lettore fedele di Vittorini e del «Politecnico»:

Per chi era un ragazzo negli anni, diciamo, fra il ’45 e il ’49, Vittorini è stato una specie di chiave della letteratura, della passione letteraria, del gusto letterario» (G. R., Quaderno in prosa, 1981).

Delle riviste, legge saltuariamente «Costume» (diretta da Carlo Bo), «La Rassegna d’Italia» (redatta da Sergio Solmi, con la collaborazione di Sereni), «Società», e in genere tutte le riviste pubblicate a Milano nell’ambito politico-culturale della sinistra.
Nasce contemporaneamente una grande passione per il cinema. Con il fratello inizia a frequentare le sale cinematografiche quasi quotidianamente, di pomeriggio, incoraggiato dalla possibilità di utilizzare le tessere messe a disposizione dalla Segreteria Generale del Comune. È inizialmente un’attività che si svolge in modo intenso ma casuale e acritico, anche legata al fascino esercitato dall’atmosfera delle sale di proiezione. Decisiva l’esperienza del Festival internazionale 50 anni di cinema che si apre nel marzo 1946 al Cinema-teatro Alcione, in Piazza della Vetra:

Mio padre, mio fratello e io non perdemmo, credo, una sola serata. Io avevo quattordici anni: più scoperta, più iniziazione di così…Proiettavano, se non ricordo male, due film ogni sera, film relativamente recenti si alternavano a classici da cineteca. Si entrava con la luce del crepuscolo e si usciva a notte avanzata, euforici e stremati. Vorrei aver conservato il programma; in una scatola di vecchia corrispondenza ho trovato, invece, soltanto un cartoncino giallo con l’invito per il 19 novembre 1946, ore 21, al secondo “martedì del Circolo del Cinema”, un’iniziativa resa possibile dall’adesione di quanti avevano seguito con maggiore fedeltà le serate all’Alcione e al termine si trasformarono nei soci fondatori della Cineteca Italiana. Prima il festival, poi quegli esaltanti martedì – che ebbero luogo per qualche tempo al vecchio cinema Anteo, poi, per anni, nell’aula magna di un istituto tecnico di piazza della Vetra – sono il fondamento, non dico della mia cultura cinematografica (che, onestamente, non credo di possedere), ma della mia passione per il cinema: il cinema “vero”, quello compreso tra le origini e gli anni Cinquanta (dopo, secondo me, comincia qualcos’altro: la storia di una grande industria dell’intrattenimento e della persuasione che di tanto in tanto – per caso, se non addirittura, si è tentati di pensare per distrazione – ha prodotto ancora qualche capolavoro) (G. R., in La cineteca desiderata. I migliori film della nostra vita, Il castoro, Milano 2001).

Vede dunque al Festival Les enfants du Paradis di Carné, l’Enrico V di Laurence Olivier, e altri classici. I «Martedì della Cineteca» diventano poi una vera e propria palestra di esercizio critico, in cui l’iniziale passione si raffina mutandosi in conoscenza capillare e approfondita della storia del cinema.
Negli stessi anni, dopo qualche spettacolo cui assiste occasionalmente con il padre (vede per esempio al teatro Olimpia, nel 1946, Il matrimonio di Figaro di Caron de Beaumarchais diretto da Luchino Visconti, e alcune opere di Eduardo al teatro Mediolanum), l’interesse per il teatro è legato alla nascita del Piccolo, che Giovanni frequenta regolarmente fin dalla fondazione nella primavera del ’47 (l’inaugurazione è il 14 maggio con L’albergo dei poveri di Gorkij).
Coltiva e sviluppa la passione per la musica:

Finita la guerra, tornati a Milano, cominciò il mio lungo apprendistato di musicomane passivo, dotato ormai soltanto – perduta per sempre quella di collaborare in un modo o nell’altro alla sua “messa in atto” – della facoltà di ascoltarla, la musica, e di fantasticare all’infinito su di essa. Per uno studente c’erano, per fortuna […], parecchie possibilità di coltivare questa passione senza dover sostenere grandi spese. La Società del Quartetto, costretta in quei primi anni postbellici a inventarsi sedi provvisorie (vi furono stagioni di concerti in un cinema appena costruito in via Piave, altre in un vecchio cinema di corso Vercelli), offriva abbonamenti a prezzi speciali, e temo di averne approfittato anche oltre i limiti d’età stabiliti. E c’era il loggione della Scala, naturalmente, le volte che non si riusciva a trovar posto nel palco di qualche compagno di scuola particolarmente ricco […]. E ci furono, un po’ più tardi, i Pomeriggi musicali al Nuovo, di cui una cugina di mio padre [Getti: n.d.c.], con la scusa di “farsi accompagnare” mi pagava l’abbonamento, e dove […] mi capitò di assistere al debutto milanese d’un giovane, e a noi sconosciuto, Sergiu Celidibache (G. R., Una sonata di Beethoven…, cit.).

Come per il cinema, anche per la musica la formazione di Raboni è segnata da un avvenimento particolare. Si tratta in questo caso della serie dei Concerti sinfonici di primavera per l’Anno Santo 1950, con un’indimenticato programma di musica sacra sinfonica: vi figurano la Passione secondo San Matteo di J.S. Bach, lo Stabat Mater di Palestrina, il Magnificat di Monteverdi, il Te Deum di Verdi, la Missa solemnis di Beethoven, la Messa in si min. di J.S. Bach, il Requiem tedesco di Brahms. Sono anche anni di ascolti discografici: dapprima sull’apparecchio a 78 giri di famiglia (ma assai faticosamente: l’edizione del Requiem tedesco posseduta dalla famiglia conta 10 dischi), poi approfittando della commercializzazione – nel ’48 – del long playing, con la quale ha inizio la formazione di una discoteca privata. Fra i primi acquisti il Concerto in re minore con due violini, archi e cembalo di Bach e la sonata op. 111 di Beethoven:

Non so come, non so perché, pur avendone sfiorata più volte l’occasione, non m’era mai riuscito d’ascoltare dal vivo l’ultima, l’estrema fra le sonate per pianoforte di Beethoven, l’op. 111; né mi ero mai deciso di acquistarne una delle incisioni davanti alle quali pure m’ero più volte fermato in estatica meditazione. In compenso, sapevo quasi a memoria le pagine stupende ad essa dedicate nel “Doctor Faustus”, il romanzo di Thomas Mann la cui traduzione italiana, pubblicata da Mondadori nel ’49, era diventata – e come avrebbe potuto non accadermi, in quegli anni? – uno dei miei livres de chevet. Mi ripetevo le frasi, al tempo stesso misteriose e lampanti, che il grande scrittore, con la complicità del suo “consulente” T.W. Adorno, aveva messo in bocca al goffo e geniale Wendell Kretzshnar per spiegare «perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo alla sonata per pianoforte op. 111» e come proprio in questa assenza, in questa enigmatica e sublime mutilazione si celebri il commovente e in qualche modo terribile “addio” dell’intera musica occidentale alla lunga, gloriosa vicenda della forma sonata; e quasi mi sembrava di sapere, di quella composizione sconosciuta, qualcosa di più che se la conoscessi, anche se naturalmente, riflettendoci, mi rendevo conto di saperne molto meno… Quello che alla fine, o forse invece all’improvviso, m’accorsi comunque di sapere, fu che era venuto il momento di passare dal vagheggiamento astratto all’incontro effettivo, “carnale”, con un’opera sul cui ritratto o fantasma per verba (quell’Arietta del secondo tempo che «attraverso cento destini, cento mondi di contrasti ritmici, finisce col perdersi in altitudine vertiginose»; quella semplicissima sequenza di tre sole note – una croma, una semicroma e una semiminima puntata – destinata a subire «avventure e peripezie per le quali nella sua idillica innocenza proprio non sembra nata»…) avevo così accanitamente esercitato la mia immaginazione da rischiare di perdermi anch’io, davvero, e con nessun costrutto, in «altitudini vertiginose». Ero deciso: mi sarei esposto alle rischiose, inebrianti incognite di un’incarnazione… (G. R., Una sonata di Beethoven…, cit.).

Nel 1949 è premiato al Teatro della Basilica ai Concorsi studenteschi di poesia e novellistica e pittura e disegno con una Poesia per Bianca (la commissione giudicatrice è composta da Carlo Bo, Salvatore Quasimodo, Angelo Romanò, P. Davide Turoldo, Orio Vergani). Allo stesso anno risale la più antica delle poesie “approvate” di cui Raboni abbia dichiarato la datazione: I compagni d’Ulisse. Esordio di quella fase della scrittura poetica che va sotto il titolo di Gesta Romanorum, sarà compresa nell’edizione Lampugnani Nigri della raccolta eponima (1967):

Nella mia esperienza posso dire che è stata molto importante la scoperta di quello che solo più tardi – leggendo Eliot, leggendo i grandi poeti anglosassoni del Novecento – avrei capito che ha una base teorica: la poetica del cosiddetto correlativo oggettivo, cioè il parlare di sé attraverso situazioni, attraverso personaggi: non direttamente. Per me la capacità di parlare direttamente di me in prima persona è stata una conquista molto lenta. All’inizio sentivo il bisogno (e ho sentito il bisogno per molto tempo) di raccontarmi in modo indiretto: di raccontarmi attraverso situazioni reali, attraverso storie già scritte, attraverso personaggi inventati o reali. Per esempio, ha avuto una grandissima importanza nelle mie prime poesie poi in qualche modo accettate e rimaste come parte della mia storia l’immaginario legato alla narrazione evangelica. La parte che ancora adesso riconosco […] della mia produzione giovanile (intorno ai diciotto, diciannove, vent’anni) è legata appunto allo sviluppo dentro la fantasia, dentro l’immaginazione, di spunti evangelici (G. R. a Pantheon, cit.).

1950-1955

Nella primavera del 1950 dà al Carducci gli esami di Maturità classica, per i quali si è preparato con l’amico Arrigo Lampugnani (è in casa di Arrigo che fa la conoscenza del “precettore” di questo, il filosofo Enzo Paci, frequentato anche nella villa dei Lampugnani a Magreglio).
È dei mesi immediatamente successivi la prima lettura della Recherche, fatta nell’originale. Tra agosto e settembre visita per la prima volta Venezia, dove trascorre una breve vacanza con il padre. La coincidenza con il Festival internazionale permette ai due di assistere a qualcuna delle proiezioni al cinema San Marco, contemporanee a quelle del Lido, tra le quali quella de La Ronde di Max Ophuls.
Nell’autunno si iscrive a Giurisprudenza, secondo il modello di una vita professionale indipendente dalla passione parallela per la letteratura (non Lettere ma piuttosto Medicina è la possibilità considerata come alternativa). L’ambiente culturale e familiare – quello di «una famiglia di borghesia, che una volta si sarebbe chiamata “di toga”, cioè una famiglia di avvocati, di notai» – incoraggia Giovanni a questa scelta.
Ma la scelta per gli studi giuridici asseconda anche una certa intima disposizione, che diventa vera passione nei corsi di Filosofia del diritto e di Economia politica. Comincia a frequentare Bianca Bottero, ora studentessa alla Facoltà di Architettura. La fine della costrizione scolastica liceale è vissuta con un senso di straordinaria, eccitante libertà, per la quantità di tempo libero lasciata dai corsi e dalla preparazione degli esami. Continuano le letture e le prove di scrittura poetica, ma anche la frequentazione di teatri, cinema e sale da concerto. Il gruppo di amici, allargato al fratello Fulvio, frequenta anche le corse del galoppo a San Siro. I due fratelli continuano poi ad assistere alle partite casalinghe dell’Inter.
(È una consuetudine con lo stadio di San Siro che per Giovanni terminerà soltanto con la morte di Sereni, compagno delle partite a partire dagli anni Sessanta.) Il 4 marzo 1952 Giuseppe Raboni muore improvvisamente, per una crisi cardiaca seguita a una lunga degenza a letto prescrittagli dopo un primo attacco. La morte del padre è vissuta con un senso di sconcerto esistenziale («tutto diventava incerto, a parte il dolore»: così a R. Zucco), ma non ha ripercussioni materiali immediate per l’aiuto economico che viene dallo zio paterno (mai sposato e senza figli, Giulio Raboni è sempre stato molto vicino alla famiglia del fratello) e dalla famiglia dei cugini Volpato, che permette ai fratelli di continuare gli studi (Fulvio, studente di architettura, diventerà docente al Politecnico di Milano).
L’evento fondamentale per la vita artistica del giovane scrittore è la conoscenza di Carlo Betocchi. L’incontro è rievocato da Betocchi nell’introduzione alle poesie pubblicate su «Letteratura», maggio-agosto 1958:

Giovanni Raboni è un ragazzo di Milano (Dio mio, l’ho conosciuto che aveva 21 anni, e mi si passi l’affettuosa espressione, anche se ora ne ha 26, con la sua brava laurea in legge, e lavora da tre anni in un’industria della sua città), un ragazzo di chiara e pacata intelligenza, limpido come l’acqua di fonte. […] In quella prima occasione la poesia di Raboni si presentò in un certo dattiloscritto intitolato “Gesta Romanorum” che meravigliò molto i giudici, a cominciare da Ungaretti: lo stacco dagli altri concorrenti era grandissimo.

Nell’estate dello stesso ’53 si manifesta la grave malattia al fegato che porterà la madre alla morte, nell’autunno dell’anno successivo. Così Betocchi ricordava Matilde Sommariva:

Ho conosciuto la sua mamma, che ora purtroppo ha perduto, dopo aver perduto anche il padre: voglio renderle omaggio, mentre parlo del figliolo; era una cara creatura, che seguiva timida e innamorata il ragazzo venuto a prendere il primo premio di poesia a Roma, alla prima tornata degli “Incontri della Gioventù”, nel ’53.

Esce sul numero del 25 giugno 1954 de «La Parrucca» (rivista milanese fondata l’anno precedente da Alessandro Mossotti) la poesia I giorni della Terra Santa. Un’altra poesia, Pioggia, esce sul numero successivo (22 luglio).
Discute la tesi di laurea in Storia del diritto romano nel febbraio del ’55. Ne è relatore Gaetano Scherillo (figlio del dantista Michele), nel cui studio Raboni ha modo di preparare, da praticante, l’esame di procuratore.
Dai primi anni Cinquanta passa le estati viaggiando in Europa con gli amici, in automobile («come piaceva a me: cioè fissando di massima un itinerario e poi fermandomi dove capitava»: così a R. Zucco). Visita due volte la Spagna e, nei viaggi successivi, Grecia, Francia, Germania, Inghilterra, dove è la prima volta nel ’53.

1955-1960

Venuta meno, dopo la morte prematura del padre, l’idea della carriera accademica o nella magistratura, alla fine dell’estate del 1955 Giovanni accetta la proposta di Angelo Volpato di lavorare nell’ufficio legale dell’azienda petrolifera di famiglia, la San Quirico, svolgendo per questa mansioni di procuratore e compiendo qualche viaggio in Italia e all’estero. Continua nel frattempo a vivere nella casa di via San Gregorio, dove dei due fratelli si occupa, per un paio d’anni, la governante Rosetta, ricordata per l’abbondanza dei pasti e la scarsa oculatezza nella gestione dell’economia domestica.
Nella primavera del 1958 muore lo zio Giulio. Il 7 agosto dello stesso anno Giovanni sposa, nella chiesa di Sant’Alessandro, Bianca Bottero (il viaggio di nozze è a Trieste e a Vienna). Lascia il quartiere di Porta Venezia per trasferirsi in via Morigi. Lazzaro nasce il 24 agosto 1959; e l’anno successivo, l’11 ottobre, Pietro.
Anche dopo la nascita dei figli, fino al 1965, la coppia trova il modo di viaggiare, sola o con amici. Sono brevi viaggi in Italia (Napoli, l’Umbria…) ma anche più prolungate uscite all’estero (è del ’65 un viaggio in Jugoslavia: Lubiana, Zagabria, Belgrado, Sarajevo, la Dalmazia). La famiglia trascorre le vacanze estive e invernali a Camogli, in una casa in affitto.
Continua a scrivere poesie. A tre anni di distanza dalle prime pubblicazioni, un gruppo di sette testi, con presentazione di Carlo Betocchi, esce nel n. 16 de «La Fiera Letteraria» (21 aprile 1957); altre cinque, ancora con presentazione di Betocchi, sono pubblicate nel n. 33-34 di «Letteratura» (maggio-agosto 1958). Nello stesso anno una silloge di diciassette testi, Gesta Romanorum e altre poesie è accolta nei Nuovi poeti raccolti e presentati da U. Fasolo (Firenze, Vallecchi). Lavora nel frattempo (sul frontespizio figureranno le date «1957-1960») alle poesie raccolte ne L’insalubrità dell’aria (1963):

Per quanto riguarda l’esperienza della poesia, il lavoro sulla poesia, è stato importantissimo il fatto di scoprire la città come metafora: come metafora della vita, come contatto con tutto quello che l’esistenza offre di problematico, di inquietante, di esaltante. E sono diventato a quel punto – dopo esser stato, nei primi anni di scrittura poetica, un “ri-raccontatore” di storie già raccontate (in primo luogo la narrazione evangelica) – un poeta di storie urbane, di racconti legati alla città, ai suoi problemi, ai suoi drammi, alle sue inquietudini. È il periodo che probabilmente ha segnato definitivamente la mia personalità di scrittore e di poeta (G. R. a Pantheon, cit.).

L’attività pubblica di critico e saggista, che tra le prime prove annovera significativamente un saggio sui Luoghi comuni sul cinema («La Chimera», II, 11-12, febbraio-marzo 1955) acquista continuità a partire dallo stesso 1958 con gli Appunti per una lettura dei “Cantos” (poi in «Letteratura», n. 39-40, maggio-agosto 1959) e con saggi e interventi su «aut aut» (Esempi per Brahms (48, 1958). Per la rivista fondata da Enzo Paci nel ’52 lavora come segretario di redazione.
Esce su «aut aut» (n. 50, 1959) la prima testimonianza dell’interesse critico per Proust: La riduzione nella “Recherche”, in cui Raboni indaga i rapporti tra il romanzo e gli ultimi quartetti di Beethoven.
Su «Il Verri» (IV, n. 5, ottobre 1960) pubblica Quadratura e La riunione ristretta. Comincia in questi anni la frequentazione dell’ambiente letterario milanese, che ha come riferimento il Blue Bar di piazza Meda. Qui – ricorda Giovanni Giudici rievocando la figura di Sergio Solmi –

confluivano Sereni e Vittorini, Ferrata e Sergio Antonielli, qualche volta Bo e Giosue Bonfanti, Anceschi e Dorfles, con gli inevitabili avvicendamenti dei più giovani: Erba e Cattafi, Eco e Furio Colombo fino al giovanissimo Raboni che fu (mi sembra) l’ultimo acquisto prima della diaspora generale (Un poeta del golfo, 1995).

1960-1966

Nell’autunno del 1960 lascia la San Quirico e diventa consulente legale dell’industria tessile Lampugnani Nigri, proprietà della famiglia dell’amico Arrigo. Ma il ruolo di dirigente industriale è vissuto con profondo, radicato disagio interiore.
È un disagio che diventa vera e propria crisi dopo la tragedia del Vajont (9 ottobre 1963).
Al lavoro di consulente legale Raboni aveva già affiancato – ma faticosamente – un’attività di lettore e consulente editoriale alla quale dal ’64 decide di dedicarsi totalmente. Inizia in quest’anno il primo lavoro di traduzione, quello de L’éducation sentimentale di Flaubert (Garzanti 1966).
Nel 1961, pubblicato da Arrigo Lampugnani Nigri, esce il primo volumetto di poesie, Il catalogo è questo. Così Raboni ne rievoca la vicenda editoriale, che si intreccia a quella de L’insalubrità dell’aria:

Il mio primo libro è, curiosamente il secondo – o viceversa. Non solo: ci sono parecchie bibliografie che come mio primo libro ne indicano addirittura un altro che invece, forse, è il terzo… Le cose sono andate così. Nel 1958 o forse nel 1959, non ricordo bene, Vanni Scheiwiller, che conoscevo allora soltanto di fama come giovanissimo e già prestigioso editore, mi telefonò per dirmi che aveva letto il dattiloscritto d’una mia raccolta di versi (era una prima stesura de L’insalubrità dell’aria e gliel’aveva fatta avere, da Firenze, Carlo Betocchi) e che l’avrebbe sicuramente pubblicata. Non disse quando, né io glielo chiesi. La lunghezza dei suoi tempi era già leggendaria, e a me andava bene così: non avevo fretta, sapevo che la raccolta era da completare e migliorare e sin da allora la cosa più piacevole e più eccitante, per me, non è fare o aver fatto un libro, ma pensarci, lavorarci, insomma doverlo fare. L’insalubrità dell’aria uscì all’inizio del 1963 nella collana «Lunario», la stessa dove erano già usciti Erba, Risi, Orelli, Cattafi; non potevo desiderare di meglio. Nel frattempo, tuttavia, era successo che un altro mio amico e coetaneo, Arrigo Lampugnani Nigri, ritrovato dopo gli anni del liceo e diventato una specie di mio datore di lavoro (gli facevo da consulente legale, o qualcosa di simile, per le aziende industriali della sua famiglia), mi aveva chiesto di aiutarlo anche a coltivare un suo hobby, una piccola casa editrice (che pubblicò fra l’altro, per due o tre anni, la rivista «Questo e altro»). Fra il 1960 e il 1961, mentre aspettavo senza la minima impazienza che Vanni mi mandasse le bozze, mi capitò di scrivere un gruppetto di altre poesie. Erano un po’ diverse da quelle dell’Insalubrità dell’aria, che aveva assunto ormai, con gli ultimi ritocchi e aggiunte, una sua struttura abbastanza compatta; e così la misi da parte. Ma credo di averne parlato con Lampugnani, o forse fu lui a chiedermi se avevo scritto qualcosa di nuovo; sta di fatto che decidemmo, un po’ per gioco, di farne un libretto in pochi esemplari da regalare agli amici (a cominciare, naturalmente, dai direttori e collaboratori di «Questo e altro»). Come prefazione pensai di metterci, dopo avergliene chiesto e ottenuto il permesso, due lettere che Betocchi mi aveva scritto di recente. Così è nato Il catalogo è questo, di cui neanch’io so dire con certezza se sia il mio primo oppure il mio secondo libro; volendo, lo si potrebbe considerare come un’anticipazione del mio primo libro riassuntivo, Le case della Vetra, uscito nel 1966 da Mondadori. […] Dell’impostazione grafica del libro e della sua realizzazione mi occupai personalmente andando diverse volte nello studio-officina di quello straordinario artigiano-artista che era lo stampatore Luigi Maestri. Scegliemmo insieme carta, caratteri e impaginazione e insieme decidemmo che la copertina e il frontespizio dovevano ricordare in qualche modo, con l’andamento accentuatamente verticale delle scritte e l’alternanza di corpi tipografici diversi, una sorta di “catalogo”, dando così un’interpretazione o equivalente visivo del titolo. Il risultato mi sembrò allora, e continua a sembrarmi, decisamente gradevole. Lampugnani ne fu molto contento; Vanni Scheiwiller, nel frattempo diventato un caro amico, mi telefonò per dirmi che era «il libro più bello dell’anno». La maggior parte delle copie, naturalmente, fu regalata a parenti e amici; ma qualcuna, non so bene come, finì in qualche libreria, e ricordo di essere rimasto molto sorpreso e persino un po’ emozionato vedendone due esemplari esposti uno accanto all’altro nella vetrina di Rizzoli in Galleria (G. R., «Wuz», marzo 2003).

Incontra Bartolo Cattafi e ne diventa amico. Vittorio Sereni è anche il tramite per la conoscenza di Franco Fortini. Ne è occasione la lettura da parte di Raboni – su suggerimento di Sereni – del dattiloscritto di Una volta per sempre prima della sua pubblicazione nello «Specchio» (1963). È un affetto sempre problematico, ma destinato a durare fino alla morte di Fortini.
Nella primavera del 1962 nasce – fondata da Niccolò Gallo, Dante Isella, Geno Pampaloni, Vittorio Sereni, ai quali si aggiungerà Angelo Romanò – la rivista «Questo e altro», della quale Raboni è stretto collaboratore e attivissimo redattore («io, più che collaborare alla rivista, praticamente la facevo, ero il redattore che la confezionava»: a D. Piccini, cit.). La rivista è il laboratorio di una riflessione sul fare letterario che segna la vicenda intellettuale di Raboni nella sua particolare sensibilità per il magistero di Sereni:

Il titolo «Questo e altro» era, credo, proprio di Vittorio ed era comunque un titolo straordinariamente sereniano, perché «Questo» voleva indicare la letteratura e «l’altro» voleva indicare tutto ciò che sta intorno alla letteratura – i suoi dintorni più o meno immediati – e da cui la letteratura non può prescindere. Su quel titolo sono fiorite battute e variazioni, più o meno scherzose, ricordo Bo che diceva «Questo, solo questo» e non è difficile capire cosa intendesse dire, cioè che per lui la letteratura era tutto, continuava a essere tutto. Fortini fece invece un epigramma che suonava pressappoco così: «Questo e altro per voi, questo è altro per me», e anche qui non è difficile capire il senso dell’intenzione e della polemica, la diversità suggerita. A me il binomio posto dal titolo, la non alternativa e la non esclusione che esso implicava continuano a sembrare decisivi: per Sereni, per noi la letteratura era – è – un grande valore che non si esaurisce in se stesso, che non esclude l’importanza dell’altro, della realtà, di tutto ciò che la realtà contiene e propone; e il tentativo di mantenere intero il binomio è stato centrale per Sereni sia come poeta che come uomo di cultura e centrale per molti di noi nel fare poetico come nell’operare letterario e oserei dire civile (G. R., Sereni a Milano, in Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1992).

Sul n. 4 della rivista (1963) pubblica, con un intervento di Betocchi, Simulato e dissimulato, Città dall’alto, Lezioni di economia politica, Il cotto e il vivo, Compleanno. E si infittisce l’attività di critico militante. È frattanto uscita (gennaio 1963) L’insalubrità dell’aria.
Il 26 gennaio 1963 nasce, a Camogli, Giulia. Nel giugno del 1964 l’incontro (per iniziativa di Marcello Pirro) con Giancarlo Majorino segna l’inizio di un’amicizia e di un sodalizio letterario e di impegno civile che coinvolge Giorgio Cesarano e che durerà per tutto il decennio.
La crisi di «Questo e altro», il cui ultimo numero esce nel giugno del ’64, coincide con la collaborazione con poesie e testi critici a «La città», la rivista «di lettere e arti» guidata da Pirro, e con l’inizio della collaborazione a «Paragone».
Su questa rivista, nel numero del febbraio ’66, escono due poesie delle ormai prossime Case della Vetra: Figure nel parco e Bambino morto di fatica ecc.
Destinato inizialmente alla collana «Il Tornasole», pensata da Sereni come sede per libri di poesia dal carattere particolarmente innovativo (vi erano già apparsi Zanzotto con le IX Egloghe, Pagliarani con La ragazza Carla, Cesarano con La pura verità) Le case della Vetra viene pubblicato invece nello «Specchio» nell’aprile del 1966. Vengono da Sereni consigli sull’ordinamento delle poesie, e in particolare quello di collocare in un’Appendice i testi più antichi. La prima recensione si deve a Luigi Baldacci («Epoca», 5 giugno 1966), che esordisce:

La realtà di Raboni è la città, è Milano: o per meglio dire quello che resta della Milano di una volta: nella memoria, nella stratificazione profonda degli anni dell’infanzia. La topografia, in Raboni, diventa storia, ragione privata e sociale al tempo stesso: sulla faccia di Milano, sui muri lebbrosi o nei quartieri “risanati” egli ritrova il disegno della propria vita, o della vita dei più vecchi.

Nel numero del giugno 1966 di «Quaderni piacentini», pubblica Il compleanno di mia figlia; in quello dell’ottobre 1966 di «Paragone» due poesie della sequenza che sarà Parti di requiem. Quello che sta ormai volgendo alla fine apparirà a Raboni un periodo eccezionale della cultura milanese:

credo che poche volte come in quegli anni la sensazione di trovarsi, vivendo a Milano, in una capitale della cultura oltre che degli affari, fosse giustificata o perlomeno giustificabile. Andando alla Mondadori nella vecchia, labirintica, amabile sede di via Bianca di Savoia, era possibile incontrare, in un solo pomeriggio, dietro o davanti a qualche scrivania, Sereni e Vittorini, Paci e Cantoni, Ferrata e Debenedetti, Fortini e Solmi, Buzzati e Del Buono… E se la grande stagione dei bar – dal Giamaica di via Brera, luogo d’incontro, oltre che dei pittori, dei fotografi (Mulas, Dondero), al Blu Bar di Largo Meda, luogo d’incontro quasi esclusivo di poeti stanziali e di passaggio – volgeva ormai al declino, fioriva invece quella delle librerie, prima fra tutte l’Einaudi di Galleria Manzoni, dove era quasi impossibile passare prima di cena senza incontrare – intenti a sfogliare libri o a chiacchierare con Aldrovandi – Ottieri o Vittorini, Leonetti o Arnaldo Pomodoro, o Giancarlo Majorino con l’ultimo numero del «Corpo», o Piergiorgio Bellocchio con l’ultimo numero di «Quaderni Piacentini»… Insomma, il dopoguerra era proprio finito. O era già un anteguerra, la vigilia di un’altra guerra? È un po’ buffo pensare a quegli anni come alla nostra belle époque… […] Chissà. Forse Milano era soltanto al centro di se stessa, anche se dava l’impressione d’essere al centro di qualcosa (in ogni caso non era – come è adesso, sempre più – alla periferia del nulla). Ma, per ripetere le parole di Frédéric a Deslauriers nell’Éducation sentimentale, «c’est là ce que nous avons eu de meilleur» (G. R., La «belle époque» della cultura milanese, «L’Illustrazione Italiana», giugno-luglio 1983, p. 91).

1967-1970

Importanti le pubblicazioni di versi del 1967: Racconto d’inverno in «Nuovi Argomenti» (aprile-giugno); quindi L’intoppo, libro d’arte con incisioni di Attilio Steffanoni che contiene la sequenza eponima (sarà raccolta in Economia della paura nel 1970, poi in Cadenza d’inganno); infine, presso Lampugnani Nigri, Gesta Romanorum, «libretto […] destinato agli amici e solo agli amici» in cui si raccolgono «remoti esercizi» poetici datati tra il 1949 e il 1954. L’anno successivo, su «La Fiera letteraria» (15 febbraio 1968), escono La morìa e L’inchiesta. Alcune prose de La fossa di Cherubino (1980) sono pubblicate in rivista – «Paragone», «Nuovi Argomenti», «Il Bimestre» – tra 1968 e ’70.
Con il 1967 ha lasciato l’incarico di segretario di redazione di «aut aut», e interrotto dall’anno precedente la collaborazione alla rivista (i cui indici attestano, tra il 1958 e il ’66, ventitré tra articoli e saggi).
Nell’ottobre del 1967 la residenza milanese della famiglia si sposta in via Paravia. Nel contempo Raboni prende in affitto, per potersi dedicare ai nuovi impegni professionali, un piccolo studio in corso Magenta. L’attività di traduttore diventa quella principale. Lavora a Bianca e l’oblio di Aragon (Mondadori, 1969) e a Un adolescente d’altri tempi di Mauriac (Mondadori, 1971), ma lavora o collabora anche a opere di minore impegno letterario. Comincia alla fine degli anni Sessanta, per Mondadori, la traduzione delle Fleurs du Mal.
Nel frattempo lavora per la RAI. Collabora fra l’altro alla redazione della rubrica televisiva settimanale “Tuttilibri” condotta da Giulio Nascimbeni, e conduce in proprio una rubrica radiofonica di letteratura e arti. Scrive con Giorgio Cesarano lo sceneggiato La carriera, che va in onda con Giulio Brogi come protagonista. Dalla redazione di “Tuttilibri” si dimette nel maggio del ’70:

Cari colleghi, penso di dovervi dire perché ho cessato la mia collaborazione a “Tuttilibri”. È molto semplice. L’ho fatto perché ritengo inaccettabile il previsto inserimento, in uno dei prossimi numeri, di un servizio su Roma 1870 di Italo De Feo: inserimento di cui mi è stata data notizia come di una decisione presa in altra sede e comunque non modificabile dai curatori della rubrica, messi così nell’impossibilità di esercitare in modo responsabile l’incarico loro affidato. E cioè, per quanto mi riguarda, nell’impossibilità di esprimere e far valere un giudizio negativo… (lettera del 13 maggio 1970, da una copia conservata nell’archivio dell’ A.).

Comincia la collaborazione con l’editore Garzanti: prima con singoli incarichi, poi con un contratto di consulenza che diventa presto un’assunzione a tempo parziale come redattore. Lavorare alla Grande Enciclopedia. Subentra poi il lavoro alle “Garzantine”, soprattutto all’Enciclopedia Garzanti della Letteratura (1972), di cui è il principale responsabile, occupandosi dei rapporti con i collaboratori e della revisione dei testi («se leggo la prima edizione ritrovo molto la mia scrittura»: a R. Zucco). Per Garzanti, collabora all’edizione italiana di A Critical History of English Literature di David Daiches (Storia della letteratura inglese, 1973) traducendo gran parte dei brani poetici citati.
Contemporaneamente riceve da Raffaele Crovi (conosciuto alla Mondadori e come segretario di redazione del «Menabò») l’offerta di assumere il posto di critico cinematografico presso «Avvenire» (il quotidiano aveva avviato una fase di rinnovamento editoriale, e aveva spostato la redazione da Bologna a Milano). L’impegno, iniziato nel gennaio del 1970, è vissuto con divertimento (si traduce in esso l’antica passione per il cinema) e svolto in assoluta indipendenza dalla direzione del quotidiano (siamo nella fase della più viva partecipazione di Raboni alla vita politica, da posizioni di sinistra).
Il rapporto si chiude comunque ai primi di settembre del ’71 a causa della recensione favorevole a The devils di Ken Russel (pubblicata il 29 agosto). Si colloca tra il ’68 e il ’70 il periodo di più forte impegno politico nell’ambito della sinistra. Dopo il pestaggio subito al corteo di Milano contro la repressione e la morte di Pinelli, il 21 gennaio 1970, riceve, tra le molte testimonianze di solidarietà per l’episodio, quella di Renato Guttuso:

Caro Raboni, ho appreso con molto dolore che sei stato brutalmente colpito durante una manifestazione contro i metodi di repressione oggi in atto […]. Voglio dirti tutta la mia stima, la mia solidarietà umana e la mia amicizia. Accetta un abbraccio dal tuo R. G. (lettera del 1 febbraio 1970, conservata nell’archivio dell’A.).

Raboni ricostruirà i funerali di Pinelli (il 20 dicembre 1969) per un’inchiesta di Corrado Stajano:

C’era molta gente; non moltissima. Parecchi amici che non m’aspettavo di vedere e mi faceva piacere vedere lì. Il gruppo dei vecchi anarchici, certi addirittura col cravattone nero. E poi le solite facce di ragazzi, quelli delle manifestazioni, con giacche a vento, barbe, berretti alla russa, occhiali con montature d’acciaio: anarchici, ma anche dell’Unione, di Lotta continua, di Potere operaio. C’era molto silenzio; faceva un gran freddo. È difficile raccontare queste cose. Per esempio la tensione, il misto di sfacelo e di speranza, la sensazione vagamente inebriante che è finita, che si è fottuti ancora una volta o una volta per sempre – e che tutto, dunque, può ricominciare. Quello che è certo è che nessuno aveva voglia di lanciare battute. Si stava zitti. Quando è uscita la bara molti hanno salutato col pugno chiuso. In via Paravia la polizia, in borghese, ha fatto sciogliere il corteo; ma alcuni gruppi di persone sono andati, in macchina, fino a Musocco. In piedi davanti alla fossa n. 434 nel campo 76, i compagni del morto hanno cantato l’Internazionale e Addio Lugano bella. È difficile da raccontare. Faceva sempre più freddo. Venendo via, con F. e S. e altri amici, abbiamo visto il gruppo dei poliziotti che s’era fermato in un altro viale, al di là di una fila di tombe, e aspettava chissà cosa. Mi è parso, così da lontano, che fossero tutti vestiti di nero (Le bombe di Milano, 1970).

Dalla vicenda dell’uccisione di Pinelli nascono le quartine de L’alibi del morto, pubblicate tempestivamente da «Nuovi Argomenti» nel numero del gennaio-marzo 1970.
Collabora dalla fondazione (e fino a tutto il ’71) alla rubrica Narrativa straniera della rivista «Il Bimestre» (1969-1973). Comincia con il n. 40 (aprile 1970) di «Quaderni Piacentini» un rapporto che si protrarrà fino al ’77, anche qui soprattutto con interventi sulla narrativa straniera. Stringe amicizia con Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio.
Escono in «Paragone» (febbraio 1969) Soppressione e Le storie, di lì a poco in Economia della paura, il libro pubblicato All’Insegna del Pesce d’Oro che alla fine dell’anno successivo raccoglierà la produzione poetica edita e inedita degli anni 1965-’68.
Nell’autunno del 1969 conosce a Roma, in casa di Angelo Maria Ripellino, la slavista Serena Vitale. Ha nel frattempo lasciato l’appartamento di via Paravia.
Dopo un nuovo incontro a Milano nel settembre dell’anno successivo la Vitale si trasferisce a Milano e i due vanno a vivere nello studio che Raboni divide in via Fiori Chiari con Giorgio Cesarano, per passare di lì a tre anni in un appartamento di via Fatebenefratelli.

1971-1975

Comincia un decennio in cui si susseguono una ventina di viaggi in Cecoslovacchia e sette nell’Unione Sovietica. Il 26 agosto 1972, con Serena Vitale, Bartolo e Ada Cattafi, inizia un viaggio che porta i quattro amici, in automobile, dalla casa di Cattafi a Mollerino (Messina) in Ungheria e in Cecoslovacchia, passando per Ostuni, Martina Franca, Roma, Milano e Venezia. Attraversata la Jugoslavia, il viaggio tocca Budapest, Bratislava, Praga.
È nuovamente a Praga nell’autunno dello stesso anno, l’autunno successivo, si reca a Mosca e a Leningrado.
A Mosca incontra più volte – tra gli altri – Viktor Šklovskij; a Praga sono frequentazioni abituali Milan Kundera (dopo il ’79 rivisto spesso a Parigi) e Vladimír Holan.
Nell’ottobre del ’71 testimonia, con una cinquantina di scrittori e intellettuali, la propria solidarietà ai giornalisti di «Lotta continua» incriminati per istigazione a delinquere da parte della procura della Repubblica di Torino:

Si trattava di una tipica autodenuncia, consistente nel riportare, virgolettate, le frasi incriminate, e nel sottoscriverle allo scopo di assumerne la responsabilità penale. Era un modo di dire ai giudici: se condannate quei giornalisti per aver pubblicato quelle frasi, dovrete condannare anche noi. Era, insomma, un gesto formale in difesa della libertà di stampa (G. R., Devozioni perverse, 1994).

La morte di Giangiacomo Feltrinelli, il 15 marzo dello stesso anno, gli detta la sequenza Notizie false e tendenziose, subito pubblicata su «Nuovi Argomenti» (marzo-aprile 1972).
Nell’ottobre 1973 esce, nel «Meridiano» delle Poesie e prose di Baudelaire curato dallo stesso Raboni, la sua traduzione delle Fleurs du Mal.
Prende in affitto dal 1972 una casa a Pieve di Còmpito (Lucca), vicino a quella in cui abita Giorgio Cesarano. Nell’estate del 1974 visita Lisbona e il Portogallo. È diventato nel frattempo dirigente alla Garzanti. Ma il rapporto con Livio Garzanti si è fatto via via più problematico; e ciò induce Raboni a limitare il suo rapporto con la casa editrice all’attività di consulenza (continua a occuparsi per qualche tempo delle piccole enciclopedie) e alla collaborazione – mai più interrotta – come autore di prefazioni, presentazioni, note.
Nasce intanto «Tuttolibri», settimanale d’informazione culturale edito da «La Stampa», al quale inizia a collaborare fin dal numero zero (12 ottobre 1975) assumendo il ruolo di critico di narrativa e di poesia italiana. La collaborazione è continua fino a quando il periodico diventa, da testata indipendente, un inserto del quotidiano, nel 1981.
L’allentamento del rapporto con Garzanti coincide con un intensificarsi della collaborazione con Mondadori, cui si lega con un contratto da consulente esterno. Partecipa tra l’altro al rilancio della «Medusa», scegliendo titoli e prefatori; ed entra nel comitato di lettura dell’Almanacco dello Specchio (con Giuseppe Pontiggia, Giansiro Ferrata, Vittorio Sereni; ne uscirà nel febbraio del 1989). Segue intensamente la collana dello «Specchio» come consulente e come autore di risvolti, firmati e non firmati.
La scrittura poetica in proprio ha il secondo importante momento di sintesi con la pubblicazione di Cadenza d’inganno, pubblicata da Mondadori nel marzo del 1975.

1976-1977

Con l’allontanamento dalla Garzanti inizia anche la collaborazione con Guanda. Con l’apporto intellettuale di Roberto Rossi, rilancia la vecchia «Fenice», fonda i «Quaderni di prosa», dirige personalmente i «Poeti della Fenice» e i «Quaderni della Fenice», cui collabora Maurizio Cucchi. La collana si segnala per l’impulso alle traduzioni (il primo autore pubblicato è Mandel’štam; seguono Arp, Lorca, O’Hara, Ritsos, Alberti, Esenin, Keruac, Auden, O’Neill, Ginsberg, Ferlinghetti, Bachmann, Verlaine, Cvetaeva…), ospita poeti già affermati (Majorino, Cesarano, Neri, Cergoly, Tiziano Rossi, Bertolani, Erba…), offre una sede editoriale di prestigio a giovani poeti (De Angelis, Lamarque, Magrelli, Benzoni…), anche accostati in volumi collettivi.
Con alcuni poeti della nuova generazione – in particolare Viviani e Cucchi – per il quale firma il risvolto di Il disperso, uscito nello «Specchio» nel ’76, e che a Raboni dedica il primo saggio monografico («Belfagor», 31 maggio 1977) – inizia un duraturo rapporto di amicizia.
Esce in febbraio, quindicesimo dei «Quaderni della Fenice», la sua prima traduzione da Apollinaire, Bestiario o Il corteggio di Orfeo.
Partecipa con Piergiorgio Bellocchio alla breve esperienza della casa editrice Gulliver, per la quale esce nel ’78 l’antologia dei «Quaderni piacentini».
Ne «L’approdo letterario» del dicembre ’76 pubblica Cinque poesie (Esplanade, Aurora, Predella, I custodi, Film), due delle quali saranno accolte in Nel grave sogno.
Entra nella giuria del premio Viareggio (vi resterà fino all’’82).
Va in onda su Radiouno il 18 aprile 1977, su invito di Carlo Betocchi, l’Autoritratto di Giovanni Raboni, pubblicato su «L’approdo letterario» nel giugno dello stesso anno. Raboni legge e commenta Come cieco, con ansia, Amen, Una città come questa, Il catalogo è questo, Simulato e dissimulato, Una poesia di Natale, Notizie false e tendenziose e l’inedita La tenerezza del guscio d’uovo. Quattro poesie che entreranno nella sequenza Il più freddo anno di grazia si leggono intanto in «Paragone» (febbraio 1977).
Stringe una forte amicizia con Antonio Porta. I due lavorano insieme all’antologia Pin pidin. Poeti d’oggi per i bambini (Feltrinelli, 1978), alla quale Raboni partecipa con poesie che più tardi entreranno nella silloge Un gatto più un gatto (Mondadori, 1991).

1978-1980

Esce la sequenza poetica Il più freddo anno di grazia, accompagnata da due testi introduttivi di Vittorio Sereni e Enzo Siciliano.
Comincia il lavoro di traduzione della Recherche. La firma del contratto, ricorda nell’Epigrafe al quarto volume, avviene il 9 novembre 1978.
Inizia una breve collaborazione a «Il Giorno» (si concluderà nel febbraio del 1979). Tra la fine dell’anno e il gennaio del ’79 è a Mosca.
È tra i fondatori, nel 1979, delle edizioni Società di poesia, nel cui comitato di lettura sono, con Raboni, Silvana Castelli, Franco Cordelli, Marco Forti, Giovanni Giudici. La nuova iniziativa dapprima affianca e poi continua i «Quaderni della Fenice», con la pubblicazione, tra gli altri, di libri di Cagnone, Zeichen, Conte, Santagostini, Lamarque, Cacciatore.
Nel dicembre del ’79 sposa Serena Vitale. Per Guanda, cura con Maurizio Cucchi i volumi Poesia Uno (1980) e Poesia Due (1981), testimonianza di un progetto di pubblicazioni semestrali dedicate in alternanza alla poesia italiana e a quella di altre aree linguistiche, nel proposito (così la quarta di copertina del primo volume) «di fornire ai lettori un continuo, agile, puntuale aggiornamento e una vasta e articolata documentazione sulla ricerca poetica di oggi e di ieri». Entra nella giuria del Mondello, dalla quale si dimetterà dopo l’edizione del 1991.
Nel marzo dell’’80 esce da Guanda La fossa di Cherubino, che raccoglie le prove narrative degli anni ’67-’69.
Su «alfabeta» di aprile pubblica L’appartamento e Dall’altare nell’ombra. In novembre esce l’antologia commentata di G. Caproni, L’ultimo borgo. Poesie (1932-1978), alla quale aveva iniziato a lavorare due anni prima su invito dello stesso Caproni.

1981-1982

Il 23 gennaio dell’’81 incontra Patrizia Valduga. Del libro Medicamenta, che gli ha portato in lettura, Raboni presenta una scelta sull’«Almanacco dello Specchio» n. 10 («Poche poesie, – esordisce – in questi ultimi anni mi hanno sorpreso e convinto come quelle di Patrizia Valduga»), accogliendolo l’anno successivo nei «Quaderni della Fenice». L’anno successivo va ad abitare con Patrizia in via Rasori. Inizia così quello che diventerà un intenso legame sentimentale e intellettuale.
Rilancia per l’editore Guanda con grande, inaspettato successo «L’Illustrazione Italiana», che dirige dall’ottobre 1981 al settembre 1983 (la copertina del numero di giugno-luglio, diversa da quella che lui aveva scelta, porrà fine ai rapporti sempre più tesi con l’editore). Vi scrivono Vittorio Sereni, Giovanni Giudici, Milan Kundera, Michel Leiris, Werner Herzog, Kazimierz Brandys, Piergiorgio Bellocchio, Hans Magnus Enzesberger, Antonio Porta, Carlos Fuentes, Gore Vidal, Rita Levi Montalcini, Gabriel García Márquez, Gershom Schocken, René Thom. Alla rivista lo stesso Raboni contribuisce con articoli e traduzioni: vi compaiono, fra l’altro, le sue traduzioni di Vitam impendere amori di Apollinaire (sul primo numero, ottobre-novembre 1981) e di Mea culpa di Céline (aprile-maggio 1982).
Importanti le pubblicazioni come critico e traduttore del 1981. A marzo esce da Sansoni l’antologia commentata Poesia italiana contemporanea; a maggio, nella «Medusa» Mondadori, la traduzione di Un amore di Swann; a novembre, da Lampugnani Nigri, la raccolta di scritti sui prosatori Quaderno in prosa.
Nello stesso mese, diradandosi gli interventi su «Tuttolibri» (che dureranno tuttavia, sia pure con episodicità crescente, fino all’’86), inizia a scrivere per «Il Messaggero», con un ritmo di almeno un pezzo alla settimana (articoli di critica letteraria e recensioni, ma anche interventi da opinionista). Per far fronte agli impegni economici della nuova separazione si impegna anche in faticosi lavori di editing (è sua la revisione linguistica della nuova edizione del Libro Garzanti della Storia per la scuola media.)
Inizia nel gennaio ’82, per iniziativa di Enzo Golino, una breve e diradata collaborazione (finirà nell’aprile dell’anno successivo) con «L’Espresso», dove tiene la rubrica di costume «Tic & Tabù».
Esce da Il Saggiatore, con traduzioni di Raboni e di Sereni, una scelta Da Alcools di Apollinaire. Pubblica in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1982, il poemetto Le nozze. È la prima delle poesie scritte per Patrizia Valduga, e sarà posta a congedo della nuova raccolta, Nel grave sogno, che esce nel marzo dello stesso anno.
Si dimette dal premio Viareggio, vinto quell’anno da Levi, Sereni e Valduga.
Nasce l’amicizia con Toti Scialoja, di cui pubblica Scarse serpi nei «Quaderni della Fenice» (1983).

1983-1984

Il 10 febbraio 1983 muore improvvisamente, per un aneurisma, il «grande amico, quasi secondo padre» (così a P. Del Giudice, «Galatea», cit.) Vittorio Sereni:

L’ultima volta che ho incontrato Vittorio Sereni è stato a Roma, il 23 gennaio di quest’anno, in casa di Laura Betti. Dovevamo decidere i finalisti del Premio Pasolini di poesia […]; e Vittorio – sempre un po’ restìo a muoversi, sempre un po’ diffidente verso Roma che pure lo incantava – s’era poi deciso a venire, era a Roma dal mattino ed era, inaspettatamente, di buonissimo umore. Un orecchio ai risultati del campionato di calcio, un altro ai sottili e anche capziosi, anche polemici discorsi che s’intrecciavano intorno e attraverso il lungo tavolo da pranzo (o, nella fattispecie, da merenda) di Laura, mi sembrava soprattutto contento di essere lì, e trasaliva a tratti come per brevi attacchi di ansia e di rimpianto all’idea che lo aspettava, tra poco, un aereo per Milano sul quale gli avevano prenotato un posto e che non poteva perdere. Finita la riunione, fece venire un taxi, mentre quasi tutti restavamo insieme a finire la serata. Non l’ho più rivisto. (G. R., Perché i versi continuino a dar fastidio, cit.).

[Quella di Sereni] è stata […] una presenza assolutamente capitale e insostituibile; credo che non capiti soltanto a me, a distanza di tanti anni [1992, n.d.c.], di sentire ancora la mancanza, il vuoto di Vittorio a Milano (e Milano vuol dire ovviamente la mia, la nostra vita) come una catastrofe, come qualcosa che ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio non tanto di una nuova epoca quanto di una grande confusione, di una grande e triste insensatezza. La presenza di Vittorio era qualcosa di luminoso e di fermo di cui non si poteva fare a meno e di cui ancora si continua a non poter fare a meno; sembra (lo so che non è oggettivamente vero, ma è come se in un modo intimo lo fosse) che la sua assenza abbia reso improvvisamente possibile tutto il peggio che potesse accadere e che di fatto è accaduto (G. R., Sereni a Milano, cit.).

Raboni, che aveva supplito occasionalmente Sereni sulle pagine de «L’Europeo» per la recensione a Stella variabile (29 marzo 1982), gli subentra dall’agosto come titolare della rubrica che era stata dell’amico e maestro, ma si dedica in seguito a un’intensa attività pubblicistica. Il lavoro critico per «Il Messaggero» e «L’Europeo» diventa così l’attività prevalente, comportando l’impegno di almeno due pezzi alla settimana. Alla scrittura giornalistica si affianca la traduzione della Recherche, alla quale ritorna sempre come a un momento di riposo e appagamento intellettuale. Il primo «Meridiano» (con Dalla parte di Swann e All’ombra delle fanciulle in fiore) esce nel giugno del 1983.
Nell’estate Luciano De Maria, il direttore dei “Meridiani”, organizza un viaggio a Chartres e a Illiers-Combray: «con la scusa di un documentario televisivo, in realtà per festeggiare l’uscita del primo volume» del Proust mondadoriano (Epigrafe a M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto).
Per Laura Betti e l’Associazione «Fondo Pier Paolo Pasolini» – costituita il 31 gennaio 1983 – è giurato del premio e condirettore della collana «Quaderni Pier Paolo Pasolini», per la quale scriverà le prefazioni a Poesie di un pendaglio da forca di Breyten Breytenbach (1986), Il poeta murato di Vladimír Holan (1991), e alla raccolta di scritti di Antonio Porta Il progetto infinito (1991). È presente a tutte le manifestazioni pasoliniane, tra le quali a quelle di Parigi (Centre Georges Pompidou, ottobre 1984), Roma (“La Sapienza”, 15 novembre 1985), Napoli (9 novembre 1994). Per l’Associazione, nel 1987 farà invitare il teorico della psicoanalisi Ignacio Matte Blanco al convegno Poesia e scienza di Montecatini.
Nel 1984 pubblica nuove traduzioni da Apollinaire, con altre di Vittorio Sereni, in La chiamavano Lu e altre poesie (Mondadori). Nell’autunno si trasferisce in via Castaldi. Il ritorno nel quartiere di Porta Venezia è vissuto con i sentimenti dettati da una personale topografia sentimentale:

Sono nato in una via di Milano – via San Gregorio – che costeggia gli ultimi resti visibili del muro di cinta del Lazzaretto (quello di cui si parla nei Promessi sposi, appena fuori Porta Orientale). Poi, lasciata via San Gregorio, ho abitato per anni dalle parti di Piazza della Vetra, l’antica “Vetra de’ Cittadini”, “quasi dirimpetto alle colonne di San Lorenzo”: il luogo, insomma, dove, la mattina del 21 giugno 1630, ha avuto inizio la spaventosa vicenda raccontata nella Storia della colonna infame. […] Ma la storia dei miei numerosi traslochi mi ha portato, da pochi mesi, ancora più all’interno della Milano seicentesco-manzoniana: abito, adesso, a due passi dalla chiesa di San Carlino, che era la chiesa del Lazzaretto e sorgeva esattamente al centro dell’area del Lazzaretto. Vivo dunque – e probabilmente morirò – non più ai margini, ma dentro il territorio, il ghetto, la riserva degli appestati… (G. R., Raboni Manzoni, 1985)

Prime traduzioni per il teatro: Fedra di Racine (per la regia di Luca Ronconi, Teatro Stabile di Torino, 1984; a stampa per Rizzoli nello stesso anno) e Don Giovanni di Molière (per la regia di Mario Morini, Milano, Teatro Nazionale, 1984): «Ho fatto questa traduzione del Don Giovanni su incarico e per passione. Non sempre le due cose si escludono a vicenda; anzi, è spesso vero il contrario, cioè che l’una include l’altra o la suscita» («Corriere della Sera», 7 gennaio 1984). Esce a Messina, in una collana diretta da Attilio Bertolucci e Angela Giannitrapani, l’antologia di sue poesie in traduzione inglese Pas de chat and other poems. Tra i traduttori è Amelia Rosselli, che volge in versi inglesi Jubilate Agno, Una fiaba, Pas de chat, Dall’altare nell’ombra, Frasi.

1985-1986

In Raboni Manzoni accosta – secondo il modello della collana «Paso Doble» dell’editore Il ventaglio – dieci sue poesie ad alcune pagine della Storia della colonna infame.
Nasce nello stesso anno, per iniziativa di Francesco Lentini (presidente del premio Mondello) e con il supporto di Luigi Brioschi, la collana «Poeti italiani e stranieri», che Raboni dirige presso l’editore Acquario – La Nuova Guanda. Nella collana (che è attiva soprattutto tra 1985 e ’86 e che si chiuderà nell’’89) sono pubblicati Esercizi platonici di Pagliarani, Pietra scritta di Yves Bonnefoy, Elegia di Mölna di Ekelöf (è la prima traduzione italiana del grande poeta svedese), Il mondo come meditazione di Stevens, Liceo di Neri, Per diritto di memoria di Tvardovskij.
Interrompe la collaborazione come consulente per Mondadori con una lettera a Leonardo Mondadori (25 giugno 1985):

Da qualche tempo, e in modo via via più netto, ho dovuto rendermi conto che la mia attività diventava sempre meno utile alla Casa editrice e sempre meno soddisfacente per me. La sostanziale soppressione della «Nuova Medusa» (al cui progetto, come ricorderà, ho contribuito sin dall’inizio), la forte diminuzione delle uscite dello «Specchio» e, più in generale, la scarsissima presenza, negli attuali programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori, sia nel campo della poesia che in quello della narrativa, mi rendono praticamente impossibile fare l’unica cosa che so davvero fare: proporre, e aiutare a scegliere, libri non ovvii, libri nuovi, libri letterariamente credibili (il che non vuol dire – anzi, vuol dire sempre meno – libri poco vendibili). […] Siccome non sono abituato a essere pagato per qualcosa che non faccio, né posso accettare di convertire una collaborazione di tipo culturale in una collaborazione, diciamo così, di fiancheggiamento (come sarebbe favorire, con recensioni o altro, libri che non mi piacciono e nei quali non intendo investire quel po’ di prestigio che mi sono conquistato con gli anni), penso proprio che non mi resti altro da fare che pregarLa di accogliere in tutta amicizia la mia decisione di non proseguire nel rapporto (dalla copia conservata nell’archivio dell’A.).

Escono negli Stati Uniti i “selected Poems” di The coldest Year of Grace, nella traduzione di Stuart Friebert e Vinio Rossi. Numerose le pubblicazioni di versi del 1986: nell’«Almanacco dello Specchio», 12 (Ho gli anni di mio padre…; I pochi che aspettano…; Tu e le tue fissazioni!…); e in «Nuovi Argomenti», nei numeri di gennaio-marzo (Su temi di Arnaut Daniel) e di ottobre-dicembre 1986 (Anagramma, deposizione). A marzo escono da Crocetti le Canzonette mortali.
Contribuisce alla nuova edizione della Storia della letteratura italiana diretta da Cecchi e Sapegno con un fondamentale capitolo sui Poeti del secondo Novecento.
Collabora con Antonio Porta e Gianni Sassi all’organizzazione di alcune edizioni del festival di poesia internazionale MilanoPoesia (1985-1992).
Esce nell’ottobre ’86 il secondo «Meridiano» con Alla ricerca del tempo perduto (La parte di Guermantes, Sodoma e Gomorra I, il primo capitolo di Sodoma e Gomorra II).
Suscita vivaci polemiche con il volumetto Cento romanzi italiani del Novecento, che esce come allegato a «L’Europeo» del 15 novembre 1986.
L’attività giornalistica, con l’apporto decisivo delle esclusioni e dei giudizi espressi nei Cento romanzi («vero pomo della discordia, quest’ultimo. Un vespaio spaventoso: chiacchiere, malumori, risentimenti, pettegolezzi, che hanno attraversato l’establishment culturale con la rapidità di un fulmine»), gli procura l’appellativo di «re censore» (dal titolo di un articolo di Mario Fortunato sull’«Espresso» del 1 febbraio 1987). Raboni risponde sullo stesso numero del settimanale:

Le mie scelte sono scelte di gusto personalissimo. Non a caso, molto spesso, ho usato un criterio comparativo: non mi interessa distruggere questo o quello, quanto valutare confrontando con altri autori e altre opere, magari meno noti e acclamati.

1987-1988

A una nuova edizione dei Fiori del male (Einaudi) si accompagna la traduzione di Partage de Midi (Cantico di Mezzogiorno) di Claudel (per la Cooperativa Teatro Franco Parenti, regia di A.R. Shammah).
Il 12 e 13 marzo 1987 è a Madrid per il Primer encuentro de poesia joven italiana y española (con Magrelli, Porta, Rosselli, Sanguineti, Valduga). Il 10 giugno è colpito da infarto su un aereo che lo porta a Francoforte. Aveva tradotto per uno spettacolo per marionette di Tadeusz Kantor La mort de Tintagiles di Maurice Maeterlinck.
Si fa trasportare a Milano affittando un Cessna, ed è ricoverato per una decina di giorni al Centro cardiologico “Le quattro Marie” (poi Monzino) di Milano. Passa la convalescenza a Sant’Ambrogio, ospite della cugina Getti Volpato, nella cui casa trascorrerà le vacanze estive dei due anni successivi. Riprende a lavorare in agosto, scrivendo per Mondadori la prefazione all’Album Proust.
Un’eco dell’episodio dell’infarto è negli Scongiuri vespertini, che escono nel primo numero (gennaio 1988) della rivista «Poesia», ideata e diretta da Patrizia Valduga. Alla prima annata del mensile contribuisce anche con un’importante intervista su La poesia e la critica (marzo) e con una traduzione di Primavera. Gran Fantasia e Fuga di Tessa (aprile).
Al termine della convalescenza, l’amore del cambiamento e la sicurezza di un contratto gli fanno accettare l’invito di Giuliano Gramigna, a nome del direttore Ugo Stille, a subentrare a Roberto De Monticelli come titolare della critica teatrale del «Corriere della Sera». Interrompe così da settembre il rapporto con «Il Messaggero», continuando tuttavia la collaborazione a «L’Europeo».
È un impegno che lo porta a scrivere anche quattro recensioni in una settimana, e a viaggiare molto. Questo gli fa rifiutare inviti prestigiosi, come quello del Vagarth festival di Bhopal in India (gennaio 1989) o del primo festival internazionale di poesia di Mishkenot sho’ananim a Gerusalemme (febbraio 1990), o delle Assises internationales de la traduction littéraires di Arles (novembre 1990).
Nel febbraio del 1988 esce da Mondadori A tanto caro sangue. Poesie 1953-1987, riorganizzazione dell’intera produzione poetica che dà corpo ad un libro a cui l’autore pensa (così nella nota conclusiva) «come a un nuovo libro che sia anche, nello stesso tempo, il mio ultimo e il mio unico libro».
Raccoglie una ventina di interventi già pubblicati su «Rinascita», «L’Europeo», «Il Messaggero» ne I bei tempi dei brutti libri, che esce in aprile da Transeuropa.

1989-1990

In ottobre esce il terzo «Meridiano» con Alla ricerca del tempo perduto (con i capitoli secondo e successivi di Sodoma e Gomorra II e La prigioniera).
Il 26 dello stesso mese rassegna le dimissioni – non accolte dal direttore Lanfranco Vaccari – da editorialista de «L’Europeo»:

il mio “Diario”, uscito nel numero dell’«Europeo» in edicola da stamattina, comprende un pezzetto – intitolato redazionalmente Un omaggio – che si concludeva originariamente con un accenno all’«anticomunismo consumistico-professionale di un Vertone o di un Giuliano Ferrara». Nella versione pubblicata il nome di Vertone è stato soppresso. Francamente, non so come avrei reagito se tu o Serra mi aveste chiesto di eliminare il nome di Vertone. So soltanto che, a quel punto, avrei potuto scegliere fra varie soluzioni: provvedere io stesso all’eliminazione; togliere del tutto il pezzetto in questione; ritirare questa puntata del “Diario”; rinunciare alla mia collaborazione con l’«Europeo». Ma nessuno mi ha chiesto niente, e si è provveduto d’imperio, senza consultarmi né avvisarmi, a modificare (o forse, meno eufemisticamente, dovrei dire: a censurare) il mio testo; e a questo punto non ho a mia disposizione alcuna alternativa all’ultima e, almeno per me, più spiacevole delle soluzioni (da una copia conservata nell’archivio dell’A.).

La collaborazione continuerà fino al mancato rinnovo del contratto da parte del nuovo direttore Vittorio Feltri, alla fine del ’91.
Con i Versi guerrieri e amorosi, pubblicati da Einaudi nell’aprile, si apre la stagione della sperimentazione metrica sulle forme chiuse.
Nell’autunno trasloca da via Castaldi in via Melzo (sempre nel quartiere di Porta Venezia, ma dall’altro lato rispetto all’asse segnato da Corso Buenos Aires). Il trasferimento è tradotto in metafora nella prosa che andrà ad aprire la Piccola passeggiata trionfale (in Ogni terzo pensiero, ma a stampa già nel ’91):

Che lunga, lentissima rincorsa. Ci ho messo quasi sessant’anni per passare da una parte all’altra del corso, trentadue, mese più mese meno, per coprire la distanza fra il quintetto in sol minore con due viole e il quintetto in do maggiore con due violoncelli. Ma queste cose e le altre ambientate incredibilmente altrove sono state fatte come tenendo il fiato, in un unico pensiero.

1991-1992

Allo scoppio della prima guerra del Golfo si schiera – con un’analisi tanto lucida quanto profetica – contro l’invasione dell’Irak da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati:

Lo speciale e in qualche modo inedito orrore di questa guerra consiste e si riflette nell’impossibilità di immaginare per dopo una pace che non sia altrettanto orribile. Distrutto l’Irak, come prima o poi riusciranno a fare, gli occidentali si troveranno di fronte a uno spirito di rivalsa e di rivolta così unanimi che saranno costretti a instaurare in tutto il Medio Oriente una pace armata di tipo neocoloniale destinata a frantumarsi in centinaia di altre guerre o in un’unica guerra endemica e perpetua. L’abisso sul cui orlo ci troviamo è l’abisso della vittoria occidentale. Il solo modo per non precipitarvi è un’interruzione immediata delle ostilità decisa e attuata unilateralmente dalle forze americane e alleate. Solo se si “arrendesse” chi sta per vincere, chi è condannato a vincere, una pace non mostruosa sarebbe ancora possibile («L’Unità», 22 febbraio 1991).

Pubblica su «Paragone» La notte del quartiere (Frammenti) (aprile 1991) e la traduzione L’albero caduto (Orazio, Odi, II, 13) (ottobre 1991).
Esce nel luglio del ’92 la terza redazione dei Fiori del male (Einaudi).
Organizza per il Teatro di Roma un ciclo di letture dantesche che nell’arco di tre anni avrebbe dovuto proporre l’intera Divina commedia affidando ogni singolo canto alla lettura di un diverso scrittore o intellettuale. Il ciclo – che non andrà oltre la lettura dell’Inferno – è aperto il 2 dicembre dalla lettura che lo stesso Raboni fa del canto XXXIII del Paradiso. Seguiranno, tra gli altri, Volponi, Fortini, Luzi, Attilio Bertolucci, Jolanda Insana, Giuseppe Sinopoli.
Il 1992 è l’anno di più intensa attività da opinionista sul «Corriere della Sera»: scrive in prima pagina commenti politici – sul processo per la strage di Ustica (16 gennaio), sulle tangenti di Milano (15 maggio), sulle aggressioni leghiste (8 luglio) – e commenti di cronaca e costume – sul linguaggio di Bossi (24 giugno), sull’esibizione del dolore in televisione (11 febbraio), sulla dichiarazione del papa riguardo alla propria malattia (13 luglio).
Altre uscite poetiche su rivista: Dall’altra parte del corso in «Nuovi Argomenti» (aprile-giugno 1992), Tre sonetti in «Poesia» (maggio 1992).

1993-1994

Contribuisce con il sonetto Maggio 1992 (Che male t’abbiamo fatto…) all’«inchiesta in versi» Otto poeti per l’Italia malata pubblicata dal «Corriere della Sera» il 3 febbraio 1993.

Dal 2 al 17 aprile, alternandosi a Luciano Canfora sulle pagine politiche del «Corriere della Sera» in un Diario dei referendum, difende con sette articoli le ragioni del “no” al referendum per l’abrogazione del sistema proporzionale al Senato (18 aprile):

Un gruppo, anzi un intero sistema di alleanze palesi e di complicità occulte, che per quarantacinque anni ha ininterrottamente mantenuto il potere, è sul punto di perderlo. È sul punto di perderlo perché, crollato il Muro di Berlino, gli è scivolata di dosso la sua abbagliante corazza di vero o presunto difensore dell’Occidente contro il vero o presunto pericolo comunista, e siamo dunque finalmente liberi di giudicarlo e punirlo per quello che ha fatto in questi anni, per le mostruose inadempienze e malefatte che ormai (crollato, nel frattempo, anche un altro muro, quello dell’omertà) sono sotto gli occhi di tutti. Chi può seriamente dubitare che questo gruppo, questo sistema, al quale torna adesso così comodo dare il nome di “partitocrazia”, mentre si tratta, più semplicemente e concretamente, della Democrazia cristiana e dei suoi alleati, verrebbe letteralmente spazzato via qualora il Paese potesse pronunciarsi secondo le regole elettorali in vigore? Ebbene, è a questo punto, esattamente a questo punto, che ci si viene a dire che quelle regole non vanno più bene, che bisogna cambiarle: pena (visto che non si può agitare lo spauracchio comunista) un non meglio precisato “caos” (2 aprile 1993).

Nel settembre del 1993 esce Ogni terzo pensiero (Mondadori); nel novembre, il quarto e ultimo «Meridiano» con Alla ricerca del tempo perduto (Albertine scomparsa e Il Tempo ritrovato).
Su «L’Express» del 24 marzo ’94 Angelo Rinaldi conclude così la sua recensione:

Si une personne dont la renommée pourrait servir de bouclier consentait à reconnaître en public qu’il apparaît, dans sa version italienne, supérieur à ce qu’il est en français, on l’applaudirait de tout cœur. Dans ce colonnes, on n’ose en prendre l’initiative. On se borne à enregistrer un miracle analogue à celui de saint Janvier, à Naples, lorsque, dans la fiole qui le contient, le sang du martyr, à force de prières, recouvre chaleur, fluidité, vie…

Nel marzo 1994 pubblica da Rizzoli Devozioni perverse, «sorta di diario» degli anni 1988-’91 allestito raccogliendo parti di articoli e interventi apparsi sul «Corriere della Sera» e su «L’Europeo».
In occasione delle elezioni politiche si schiera pubblicamente con Rifondazione Comunista. La vittoria elettorale di Silvio Berlusconi è accolta con dolore e sconcerto, sentimenti di cui risentirà fortemente la poesia degli anni che seguono:

Depuis quelques temps je ressens avec une urgence particulière le besoin de témoigner jusqu’au sein de ma poésie de mes réflexions, de mes préoccupations et des mes indignations de citoyen, probablement parce que je vis dans un pays où se font entendre à nouveau d’odieuses tentations antidémocratiques et antisociales (alla rivista «Po&sie», 109, 2004).

Accetta la direzione di una collana di «Poesia» per l’editore Marsilio. Il rapporto si chiuderà nel 2000, quando in quella sede saranno usciti libri di poeti di generazione e tendenza diversa, come Toti Scialoja, Dario Villa, Marco Ceriani, Elio Pagliarani, Ferruccio Benzoni, Riccardo Held, Massimo Lenzi, Jolanda Insana, Giuliano Gramigna.
Traduce, su invito di Luca Ronconi, Ecuba di Euripide, per la regia di Massimo Castri (stagione teatrale 1994/95 del Teatro di Roma; debutto al Teatro Argentina, il 29 novembre). Scrive per il programma di sala:

L’unica cosa di qualche importanza che ho da dire su questa traduzione o, come forse preferirei chiamarla, su questa riscrittura di Ecuba è che l’ho fatta per il teatro e soltanto per il teatro. In altre parole, vorrei che a nessuno venisse in mente di leggerla come se pretendesse a un’autonoma esistenza letteraria, ciò che ho cercato di scrivere e che spero di aver scritto non è la tragedia di Euripide in lingua italiana, ma il copione dello spettacolo che Castri avrebbe realizzato e che ho cercato di immaginare sulla scorta di altri suoi spettacoli.

Il 3 settembre, nell’ambito del XXXVI Corso Internazionale di Alta Cultura Le metamorfosi del ritratto, tiene alla Fondazione Cini di Venezia una lezione dal titolo Proust contro Proust.
L’accettazione di un premio a Firenze ha come corollario la pubblicazione di una raccolta inedita l’anno successivo: Septuor.
Nel dicembre gli è assegnato, per la sua Recherche, il Premio Aristeion per la miglior traduzione promosso dalla Comunità Europea, che ritira a Lisbona, capitale europea della Cultura.

1995-1997

Scrive, richiestone da Adriano Guarnieri, la sequenza di cinque testi Quare tristis per l’omonima composizione eseguita – presente il poeta – alla Biennale Musica di Venezia (Chiesa di S. Stefano, 1 luglio 1995). La sequenza sarà pubblicata nel 1998 con titolo Cinque strofe per la musica di Adriano Guarnieri (Lecce, Manni), per entrare poi nella raccolta Quare tristis.
Una seconda redazione del Bestiario di Apollinaire esce da TEA nel marzo del ’96; la quarta redazione dei suoi Fiori del male da Mondadori (nel «Meridiano» delle Opere di Baudelaire) il mese successivo. Continua il lavoro di traduzione per il teatro: Ruy Blas di Victor Hugo (per la regia di Luca Ronconi, Teatro di Roma e Teatro Stabile di Torino, debutto al Teatro Argentina il 4 novembre 1997; la traduzione è pubblicata da Einaudi nello stesso anno) e Le false confidenze di Marivaux (per il Teatro di Genova diretto da Ivo Chiesa, prima rappresentazione il 10 marzo 1998 al teatro Duse con la regia di Marco Sciaccaluga). Traduce inoltre il testo allestito da Giacomo Manzoni per il suo Moi, Antonin A., per soprano leggero, lettore e orchestra su testi di A. Artaud (Firenze, Maggio musicale fiorentino 1997, 12 giugno 1997).
Nel 1996 ritorna nella giuria del premio Viareggio; ma ne uscirà l’anno successivo dopo aver partecipato a due sole sedute, motivando le dimissioni sul «Corriere della Sera» del 31 agosto. L’intervento spiega l’insoddisfazione per i meccanismi decisionali del Viareggio, ma si pone soprattutto come manifesto programmatico per un premio letterario ideale:

Dunque, sono entrato in questa giuria, con qualche speranza di realizzarvi almeno in parte il mio vecchio sogno di un lavoro serio, sereno e pacato, al quale ciascuno possa dare il proprio contributo specifico di interessi e di conoscenze e nel corso del quale si arrivi per gradi a un’opinione comune confrontando fra loro le singole opinioni, mettendole davvero in discussione, convincendo gli altri ma anche lasciandosi convincere […]. E pensavo anche che, a questo scopo, sarebbe stato giusto valorizzare le competenze di ciascuno, che si sarebbe dovuto dare un particolare peso ai giudizi dei filologi in materia di filologia, degli storici in materia di storia, degli esperti di poesia in materia di poesia, dei musicologi in materia di saggistica musicale, e via discorrendo, salvo poi far confluire il tutto in una prospettiva (e in una discussione) di più generale convenienza culturale. Insomma, un lavoro unitario ma svolto, in parte, anche con il metodo delle «commissioni», viste la quantità e l’eterogeneità delle materie in esame… Mi sembra, alla luce della riunione dell’anno scorso e di quella di quest’anno, che niente di tutto ciò sia avvenuto. Ciascuno dei membri della giuria è arrivato con un’idea (non importa se sua o di qualcun altro) e con quella è ripartito; e non ne faccio colpa a nessuno in particolare, visto che anch’io mi sono comportato così. Ma credo che una responsabilità e un’iniziativa, in questo senso, sarebbero dovute spettare al presidente: il quale ha badato invece essenzialmente – come tutti gli altri, ma con il vantaggio e l’aggravante di essere presidente, di avere inserito nella giuria un certo numero di persone a lui incrollabilmente devote e di avere il carisma, il prestigio e il fascino oratorio di Cesare Garboli – a far vincere i concorrenti che aveva in mente di far vincere. Tutto qui; ma con questo mi lusingo di avere, non dico spiegato, ma almeno suggerito, sia come un premio letterario potrebbe e dovrebbe essere per superare la soglia della banalità, del piccolo cabotaggio e della piccola vanagloria, sia le ragioni del mio stato d’insofferenza e delle mie dimissioni. Sarà, spero, per un’altra volta; ma giuro che, semmai il prodigio dovesse avverarsi, non sarò lì a vedere.

Alla fine dell’aprile ’97 esce da Garzanti la raccolta Tutte le poesie (1951-1993). In apertura del volume è Gesta Romanorum, «i resti della mia prima raccolta di poesie, premiata a un concorso per inediti ma mai pubblicata e, a un certo punto, andata perduta». A un mese di distanza pubblica da Scheiwiller una raccolta di undici nuovi sonetti, Nel libro della mente (uscito l’anno prima come libro d’arte, con incisioni di Attilio Steffanoni).

Il 12 aprile interviene con un’intervista a «L’Unità» nel dibattito che oppone Fausto Bertinotti al governo Prodi sulla partecipazione italiana alla forza multinazionale dell’ONU in Albania, partecipazione approvata alla Camera il 9 aprile con voto favorevole di Ulivo e Polo, contraria Rifondazione Comunista:

La posizione di Bertinotti sull’Albania? È francamente incomprensibile. Si direbbe motivata da pura voglia di protagonismo. Se si andasse alle elezioni per una rottura provocata da queste posizioni, credo proprio che non voterei più per Rifondazione […]. Non è la prima volta che ho la fastidiosa impressione che non siano tanto le sorti della sinistra a pesare, e al suo interno le ragioni di Rifondazione (sia pure in un rapporto dialettico), ma la tutela dei propri quozienti. E ogni volta che ho questo sospetto, mi sento totalmente in disaccordo.

(Rifondazione recederà nei giorni immediatamente successivi dal minacciato ritiro dell’appoggio esterno al governo).
Il 23 dicembre la Provincia di Milano gli conferisce la Medaglia d’oro di Riconoscenza.

1998-1999

Philippe Jaccottet presenta a Raboni una traduzione francese dei sonetti di Nel libro della mente:

Je ne connaissais de votre œuvre – gli scrive il 27 febbraio – que les rares poèmes traduits par notre ami Simeone dans Lingua, dont celui de la mort de la mère m’avait beaucoup frappé, quand Scheiwiller, au milieu d’autres cadeaux, m’a offert le petit livre de vos sonnets. Revenu de Milan avec une sorte de regain d’énergie, peut-être dû à l’amitié de l’accueil, j’ai eu envie de les traduire, activité à laquelle je proclamais sans cesse avoir renoncé définitivement. C’est vous dire si je les ai admirés. Les voici donc en signe d’amicale estime, soumis à votre lecture.

È l’occasione per un intenso scambio epistolare con lo scrittore svizzero, che porterà alla pubblicazione di Au livre de l’esprit, Ginevra 2001.
Nella stessa primavera Walter Veltroni, ministro della cultura, manifesta a Raboni il desiderio di nominarlo nel consiglio di amministrazione del Piccolo Teatro. Raboni accetta. Sospende quindi l’attività di critico teatrale al «Corriere», anche per l’insorgenza di nuovi problemi cardiaci che rendono necessario l’inserimento – il 23 marzo – di tre by pass.
Tuttavia la collaborazione al «Corriere della Sera» continuerà con cadenza settimanale nelle vesti di critico letterario (in particolare sulle due colonne dell’«Elzeviro» in terza pagina) e di commentatore.
Traduce Il cammino della Croce di Claudel per la regia di Fabio Battistini (debutto il 2 aprile 1998 a Trento, nella Basilica di Santa Maria Maggiore). Congeda la quinta edizione della traduzione delle Fleurs du Mal (Einaudi 1999).
In settembre escono i Contraddetti, scelta di articoli apparsi sul «Corriere della Sera» tra il ’92 e il ’97 allestita e curata dall’editore e amico Vanni Scheiwiller. Sul primo numero della rivista «L’ospite ingrato» pubblica, sotto il titolo Versi inediti 1995-96, tre sonetti.
Il 22 luglio è alla Fondazione Cini di Venezia per il Corso di aggiornamento per italianisti, intervistato da Silvana Goldmann.
Esce da Mondadori, in novembre, la nuova raccolta Quare tristis.
La Provincia di Milano gli dedica un video: legge dei versi, parla di sé, della parola come «strumento di responsabilità morale», della sua idea di una «comunità di vivi e di morti»:

A me sembra che nella famosa, conclamata concretezza di Milano fosse compresa, fosse “incapsulata” questa idea che la vita è concreta anche perché comprende il passato e quindi la presenza dei morti. Ecco, io credo che fosse una forma del “realismo lombardo”, quella capacità di vivere anche coi morti: così come di vivere con gli altri, di vivere con i diversi, che era una delle grandi vocazioni di Milano. Direi che sono due aspetti complementari, e tutt’e due fortemente compatibili con quel realismo che è nella vocazione estetica della cultura lombarda, ma che è anche, secondo me, nella sua moralità, nel suo modo di affrontare la vita, e persino gli affari. Mi sembra effettivamente che sia lì, che sia verso la metà degli anni Sessanta che qualcosa comincia a incrinarsi. E queste cose vengono lentamente – ma anche, da un certo punto in poi, abbastanza rapidamente, rovinosamente – meno. Viene meno questa capacità di convivere col passato e quindi con le generazioni perdute, con le generazioni dei defunti; e viene meno la capacità di vivere con gli altri. E questo proprio in un momento come l’attuale – momento di trasformazione non soltanto di questa città o di questa nazione, ma di tutto il mondo – in cui è più che mai indispensabile riuscire a vivere con gli altri, perché il futuro del mondo, se c’è, è un futuro, appunto, di convivenza al più alto livello di confusione possibile (dico confusione nel senso anche positivo). Effettivamente, se non riusciamo ad essere ospiti e non riusciamo a far sì che i nostri ospitati diventino a loro volta ospiti nostri, credo che non ce la caveremo, credo che andiamo verso un avvenire di delitti e di invivibilità. Secondo me, in una città come Milano – che tutto questo l’aveva dentro, e che l’ha lentamente, e poi purtroppo con un’accelerazione drammatica, perduto –, tutto questo si sente in modo particolare, ed è particolarmente indispensabile. Credo veramente che se non ripartiamo da qui, cioè dalla riconquista del senso della comunità – comunità sia con i nostri morti, con il nostro passato, che con la diversità, con gli altri, con gli ospiti – non c’è futuro (E. Bertazzoni, Giovanni Raboni. Il futuro della memoria, cit.).

Il 10 agosto 1999 viene eseguita al Festival di Salisburgo l’opera Pensieri canuti di Adriano Guarnieri, su testo di Giovanni Raboni (poi Cantano di paura nel giardino, in Barlumi di storia).
Lavora a una nuova redazione della Fedra da Racine (ora per la regia di Marco Sciaccaluga, Teatro Stabile di Genova, 1999; a stampa per Marietti nello stesso anno).
Esce in novembre dall’editore Magenta Ventagli e altre imitazioni, raccolta di versi tradotti da Mallarmé e Laforgue.

2000

Traduce Antigone di Sofocle, che va in scena dall’8 al 18 giugno al Teatro Greco di Siracusa nell’ambito del 36° Festival del Teatro Classico (con la Compagnia del Teatro Carcano diretta da Giulio Bosetti, regia di Patrice Kerbrat; poi, il 27 settembre, al Teatro Olimpico di Vicenza). Scrive per il programma di sala:

Quella di Antigone è la storia di una giovane donna che affronta la morte per non tradire la pietà dovuta ai morti. La pietà per i morti non è soltanto un impulso della sua coscienza, è anche, per lei, un dovere sancito dalle leggi non scritte, le leggi di origine divina. Ma nella storia di Antigone le leggi divine si scontrano con le leggi umane, di cui Creonte, il re di Tebe, è la personificazione, cioè l’esecutore e il garante. Antigone, con il suo bisogno di dare sepoltura al corpo del fratello Polinice morto in battaglia, crede di obbedire agli dei; Creonte, con la sua volontà di impedirglielo perché Polinice è morto combattendo contro la sua stessa patria ed è dunque, di fronte agli uomini, un traditore, è convinto di obbedire alle esigenze della convivenza civile, dell’ordine, del buongoverno. Chi ha ragione fra i due? Il dibattito è aperto da 2500 anni e riguarda davvero (per una volta si può dirlo senza timore di cadere nell’enfasi) tutto e tutti in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo: la storia di ogni comunità retta da un patto sociale, con il suo conflitto forse insanabile fra le ragioni del “progresso” e le ragioni della giustizia, e la vita di ciascuno di noi, con il suo conflitto certamente insanabile fra le ragioni della mente e le ragioni del cuore.

Si dedica con Marco Ceriani alla messa in versi italiani (sulla traccia di una traduzione letterale fornita da Vasta Fesslová) di poesie da Na sotnách (A lume d’agonia) e da Asklépiovi kohouta (Un gallo a Esculapio) di Holan, instaurando una consuetudine di lavoro – sempre le mattine della domenica – che si protrarrà fino alla metà del 2002. Il risultato è A tutto silenzio (Mondadori 2005).
Una scelta di testi nella traduzione tedesca della scrittrice Christine Wolter è pubblicata nel numero di aprile di «Akzente».
Il 26 giugno è a Monaco di Baviera nell’ambito della rassegna di incontri Poesia 2000 – Italienische Dichter in München.
Esce da Garzanti in settembre la Rappresentazione della Croce, in scena il 21 ottobre al Teatro Vittorio Emanuele di Messina per la regia di Pietro Carriglio.
In ottobre Garzanti pubblica una nuova edizione di Tutte le poesie, comprensiva di Quare tristis.
Il 13 novembre è all’Istituto Italiano di Cultura di Zagabria a parlare di Aspetti della poesia italiana del Novecento.

2001

Inizia a lavorare a un «Meridiano» dell’opera di Racine, traducendo Athalie e Bérénice (concluse nel corso del 2003).
Dal 17 al 27 aprile è per la prima volta negli Stati Uniti. A New York fa una lettura all’Istituto Italiano di Cultura con John Ashbery e incontra il poeta Alfredo De Palchi (che ha incaricato Michael Palma di tradurre le poesie di Raboni per le sue Chelsea Editions); a Yale legge i suoi versi per gli studenti e scrive le ultime scene di Alcesti, o La recita dell’esilio; a Philadelphia partecipa alla convention dell’American Association of Italian Studies (19-22 aprile).
Escono a New York i Selected Poems tradotti da Tina Chiappetta.
Pubblica in giugno una plaquette con un testo poetico e tre prose, con il titolo e a prefigurazione della prossima raccolta mondadoriana Barlumi di storia.
Dopo l’11 settembre, richiesto dal «Corriere della Sera» di una testimonianza sui tre minuti di silenzio indetti per il 14, scrive un pezzo che non sarà pubblicato:

Dove si va a vedere il silenzio di una città, anzi di una nazione, anzi di un continente? Io mi sono limitato a raggiungere una delle strade più animate e rumorose di Milano, corso Buenos Aires, spina dorsale d’un quartiere dove i mussulmani, ormai, non sono molto meno numerosi dei cristiani. Non c’erano, naturalmente, né bandiere abbrunate né autorità in pensoso raccoglimento. A mezzogiorno qualche negozio ha abbassato la saracinesca, un bar ha attenuato le luci; e non so come – forse semplicemente perché stavo più attento – ho sentito abbastanza nitidamente, attraverso l’usuale rimbombo del traffico, i dodici rintocchi della campana di Santa Francesca Romana. No, non posso dire di aver visto il silenzio della città. In compenso, dopo tanti giorni di meravigliosa luce settembrina il cielo era opaco, spento, e le poche gocce di pioggia che poco prima avevano cominciato a cadere si sono come immobilizzate nell’aria: a rendere memorabile un istante, isolandolo da quelli che lo precedono e da quelli che lo seguono, non è mai la nostra volontà. Resta da capire di cosa sia possibile, di cosa sia giusto riempirli, quei tre minuti di silenzio: niente ha meno senso di un’offerta simbolica non raccolta, di un contenitore d’emozioni senza contenuto emotivo; e a venirmi in mente per prime, mentre tornavo verso casa, sono state tre parole estremamente semplici e antiche, pietà, rimorso, speranza. C’è bisogno di spiegarle? Forse no; forse soltanto di ripeterle, di ribadirle. Pietà per i morti, per tutti i morti, compresi (è lecito dirlo?) i folli sventurati che si sono uccisi per uccidere, che hanno cancellato migliaia di vite per guadagnarsi l’orribile paradiso degli eroi. Rimorso per tutto quello che in questi anni, in questi mesi, in questi giorni non abbiamo fatto e continuiamo a non fare, per l’indifferenza o la distrazione con la quale assistiamo giorno dopo giorno al perpetuarsi, al moltiplicarsi, al dilagare di quell’unica malattia veramente mortale per la convivenza umana che è l’ingiustizia. Speranza che all’immensa carneficina non faccia seguito soltanto la guerra al terrorismo, ma anche la guerra alla povertà, all’ignoranza, alla disperazione da cui il terrorismo probabilmente nasce e di cui certamente s’alimenta. Troppe parole, troppi pensieri, lo so, per tre minuti di silenzio; ma nella coscienza di ciascuno di noi ci sono, temo, ben altri silenzi da colmare (dattiloscritto conservato nell’archivio dell’A.; in calce, manoscritta, la data 14.9.2001).

2002

Il 21 marzo muore il fratello Fulvio.
Dal 9 al 17 aprile tiene un corso su L’idea di teatro nel mondo contemporaneo presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia.
In maggio, scaduto il mandato di consigliere di amministrazione del Piccolo Teatro (di cui era vicepresidente), non viene confermato nell’incarico.
Per l’affetto verso il Piccolo, continuerà le letture di poesia iniziate con Strehler. Nonostante la fine dell’impegno nel Consiglio di amministrazione del teatro, decide di non riprendere il posto di critico teatrale al «Corriere della Sera».
Escono in settembre il testo teatrale Alcesti, o La recita dell’esilio (da Garzanti) e un nuovo volume di versi, Barlumi di storia (da Mondadori).
Il 20 novembre tiene la prolusione all’anno accademico 2002/03 della Facoltà di Architettura di Parma, parlando dell’opera poetica dello scultore Fausto Melotti.

2003

Il 24 gennaio, al termine di un incontro pubblico coordinato da Piergiorgio Bellocchio a Piacenza, legge gli inediti Versi d’autunno («è poesia politica più che civile», precisa), che col titolo Canzone del danno e della beffa entreranno nel ciclo di poesie satiriche contro Silvio Berlusconi raccolte da Patrizia Valduga, con altre inedite recenti, nei postumi Ultimi versi (Garzanti 2006).
All’annunciarsi della seconda guerra del Golfo prende immediatamente posizione contro l’invasione dell’Irak:

Sono ovviamente contro la guerra – come, credo, ogni essere umano. Ma la cosa che sento il bisogno di dire è che sono contro QUESTA guerra. La dottrina della guerra preventiva inventata da Bush è una mostruosità sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista etico. Se qualcuno, per la strada, ammazza un altro perché gli sembra che abbia un’aria sospetta, non esercita un diritto di legittima difesa, è semplicemente un assassino. Se Bush attaccherà l’Irak senza che l’Irak compia e nemmeno minacci il minimo gesto ostile contro gli Stati Uniti la storia dell’umanità precipiterà all’indietro di decenni, forse di secoli. E non parlo solo della spaventosa carneficina di civili innocenti che si profila, parlo anche del fatto che qualsiasi principio di legalità internazionale, a questo punto, sarà stato spazzato via e il mondo diventerà un immenso Far West dove l’unica cosa che conta è sparare bene e sparare per primi (dattiloscritto conservato nell’archivio dell’A., per una pubblicazione non identificata).

Nuove traduzioni per il teatro: La scuola delle mogli di Molière (per la regia di Jacques Lassalle, debutto a Vittorio Veneto il 4 marzo 2003) e Il mercante di Venezia di Shakespeare (scritta nell’agosto, a Belluno, per una rappresentazione al Teatro Massimo di Palermo che si sarebbe dovuta avvalere di interventi musicali di Giacomo Manzoni, ma che non si realizzerà). Quella di Assassinio nella cattedrale (per la regia di Pietro Carriglio, Palermo, Teatro Biondo, 29 dicembre 2003) è la realizzazione di un progetto antichissimo. Dal programma di sala:

Desideravo tradurre Assassinio nella cattedrale da qualcosa come mezzo secolo: esattamente dal 1953, quando, durante il mio primo viaggio in Inghilterra, acquistai in una libreria di Londra il testo originale del dramma, che già avevo ascoltato e letto e volenterosamente amato nella volenterosa traduzione italiana allora disponibile.

Decide di raccogliere i suoi scritti sulla poesia italiana del Novecento, secondo un progetto più volte rimandato. Il volume, curato da Andrea Cortellessa, uscirà con titolo La poesia che si fa nell’agosto del 2005. Nel contempo, inizia a lavorare con Rodolfo Zucco al «Meridiano» delle proprie opere.
In aprile vince con Barlumi di storia la XV edizione del premio Librex-Montale.
Il 18 giugno la poesia Il compleanno di mia figlia è proposta nella traccia per la prova scritta di italiano all’esame di maturità.
Realizza con Enrico Baj il libro d’arte Sull’acqua (Belluno-Milano, Colophon e Galleria Giò Marconi). I testi poetici sono presto tradotti in francese («Po&sie», 109, 2004) e in spagnolo («Cuadernos de Filología Italiana», 11, 2004).
Il 3 dicembre, nel quadro delle manifestazioni sulla cultura italiana organizzate a Parigi da Maurizio Scaparro, presenta con Michel Déguy allo Studio de la Comédie des Champs-Élysées Maurizio Cucchi, Gabriele Frasca, Jolanda Insana, Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto.

2004

Il 7 gennaio, al Teatro Santa Chiara di Brescia, vi è la prima di Alcesti, o La recita dell’esilio, per la regia di Cesare Lievi.
Il 12 aprile, nel pomeriggio del lunedì di Pasqua, al rientro da qualche giorno trascorso a Belluno, è colto da una violenta aritmia nell’appartamento di via Melzo mentre termina l’articolo sulla morte di Cesare Garboli per il «Corriere della Sera». È ricoverato all’ospedale Sacco di Milano, in stato di coma. Si risveglia il 5 maggio, ed è trasferito il 19 all’Istituto di riabilitazione Richiedei di Gussago (Brescia).
Esce intanto a maggio da Einaudi la sua traduzione di una scelta di poesie di Jean-Charles Vegliante (Nel lutto della luce). Nello stesso mese (11-13 maggio) è dedicato a La poesia di Giovanni Raboni l’annuale Seminario di perfezionamento linguistico-letterario di San Salvatore Monferrato (intervengono Elio Gioanola, Giovanna Ioli, Enrico Testa, Stefano Verdino, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giorgio Bertone, Roberto Rossi Precerutti, Rodolfo Zucco).
A metà giugno è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano; di qui passa il 30 agosto nel Centro di Riabilitazione cardiaca di Fontanellato (Parma).
Muore la mattina di giovedì 16 settembre, a causa di un nuovo attacco cardiaco.
I funerali sono officiati sabato 18 nella basilica di Sant’Ambrogio. Riposa nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano.

“Cronologia” di Rodolfo Zucco, in “L’Opera Poetica”, Mondadori 2006