LA RICEVITORIA DEL LUTTO

di Gabriele Frasca

Nel recensire con l’accorata puntualità dell’amicizia e dell’ammirazione quella che sarebbe stata l’ultima raccolta di Vittorio Sereni, Stella variabile1, Giovanni Raboni si concedeva un improvviso, persino imprevisto (nel suo tono caldo ma comunque discreto di testimone di quanto nella poesia si fa) «indietreggiamento»: quel tanto necessario a entrare in camera, per la complicità di uno sguardo in macchina. Non si trattava, difatti, di un ricordo personale, o di un trasalimento affettivo, come gli capitava talvolta per i poeti anche umanamente più amati, a partire da Betocchi. Non era certo il più giovane amico ma l’estensore di quelle pagine, e non già dunque Giovanni Raboni ma la sua funzione, ad accennare all’«oscillazione» che l’avrebbe ritratto infine di sbieco, sottratto per un momento al cono d’ombra e «gabbia virtuale» del libro dell’amico, di cui, come in ogni recensione, teatrino di un lettore per lettori, non poteva che offrire il dorso. Era, insomma, l’altro necessario polo della poesia che si fa, il lettore interno, intimo, il compagno, a mostrasi in funzione nel quadro, se mai agghiacciandosi in quello stesso sguardo sospinto sulla «linea imperiosa» tracciata fino a noi, lettori terzi, che Foucault aveva colto, «spartiacque tra il visibile e l’invisibile», nell’occhiata con cui Velázquez, sospeso nel gesto della sua mano, si affaccia da dietro la tela dipinta a proiettare al di là della barriera molle de Las Meninas lo «spazio in cui siamo, che siamo»2.
L’immagine, diciamo pure questo presunto autoritratto con cui chiamare in causa lo sguardo del terzo (quel terzo «in cui siamo, che siamo»), è naturalmente un artificio, e una deformazione, un mettersi in posa insomma con cui supporre, o perché no dettare, la posa altrui, quella che traspare di già, in Velázquez, nello specchio concettoso nascosto nella quinta della tela dove a ciascuno, alla faccia (alla lettera) di Filippo IV e consorte, è dato scoprire il proprio riflesso. Il quadretto ha tutta l’eleganza, e la portata educativa, di una teoria barocca delle inconsistenze. Per invitarci a fare la poesia di Stella variabile, Raboni si ritrae nell’atto «oscuramente superstizioso» (e, lo si dica sùbito, assolutamente prevedibile nella sua provvidenzialità, se ne viene fuori la poesia che contiene il sintagma divenuto titolo dell’intera raccolta) di aprire «a caso» il libro dell’amico («come bisognerebbe sempre fare per cercare vaticini e segnali»), per trovarvi «alcune parole» (non versi, attenzione) che è come se fossero balzate su a cercarlo, se mai per condizionargli, magari con un colpo di dadi, «la lettura dell’intera raccolta». E le parole si leggono, sùbito, a completare il senso dell’insegna: «una / vita fino a ieri a me prossima / oggi così lontana…»3.
Si tratta, precisa Raboni, rientrato nell’ombra della tela ma per avventurarsi con l’ossessione di queste «parole» nel vivo della raccolta, e dunque lì dove il suo sguardo compagno ha previsto si fronteggeranno Sereni e il suo lettore, di un’immagine «purgatoriale» in cui si rapprende «la distanza che separa ora dalla vita questo poeta innamorato della vita»4. Stella variabile, ci dice, si fa in una «vicenda di mancamenti ma non di mancanza», in cui la vita «appare […] più commemorata […], più accarezzata […] nel suo precipitare, […] che inseguita nel suo farsi e disfarsi», e proprio in quanto, malgrado «ormai sprofondante», tenacemente condotta (o condannata) a permanere tale «nei suoi residui e ostinati bagliori», per consegnarsi infine a quella «saggezza piena di brividi, smangiata dal verme del desiderio» con cui l’ultimo Sereni ha impastato i suoi colori: «una cenere accesa, un’opacità fitta di iridescenza, una semioscurità continuamente smossa dal puntiforme rimorso della luce» 5
A ripercorrere il paesaggio autunnale (ma di un autunno luminoso, estivo, barocco, ove stagliarvi sin dai primi versi lo «squamarsi» dell’albero) de La malattia dell’olmo con il viatico di questa straordinaria lettura simpatetica6, e a riannodarvi poi i fili che vi si diramano fino a quella che sarà a sua volta l’ultima produzione dello stesso Raboni (quando l’amico avrà gli stessi anni dell’amico), non è difficile scorgere nella tenace sopravvivenza, a dispetto della vita stessa, della memoria (con tutto il suo immaginario dantesco di «spino molesto» che «non si sfama mai», anzi di «aculeo» che giunge «dove più punge e brucia», al punto che, una volta «tolto», non estinguerà l’irritazione), il senso stesso del cartiglio a suo modo coerentemente tautologico esposto da Raboni a impresa del proprio metodo già nel 19637: «la poesia che si fa», appunto. Né senza ragione, dunque, Andrea Cortellessa ha issato esattamente questo vessillo nel licenziare la raccolta che contiene il controcanto con cui il poeta si fece lettore e critico, e per l’appunto compagno, di tanta poesia altrui, vagliata sempre con la cautela con cui ci si avvicina alla materia viva. Perché se la memoria, e giusto nell’oscillazione in cui la vita creduta «prossima» è «lontana», anzi quanto più è diventata lontana, «non si sfama mai», non basta levare l’«aculeo», diciamo pure il dato biografico con la porzione di realtà che vi s’innesta: la poesia si fa, si rifà, tutt’intorno alla sua spina irritativa. La poesia si fa, si rifà, anche senza quell’«aculeo» (e fortunatamente), per compagnia, per contagio, e persino per parassitosi. E magari proprio in virtù di quel suo dato formale così cospirativo, lo si chiami ancora stile (perché è un procedere a taglio), che resta, direbbe Weinrich, «il miglior agente della memoria nelle opere della cultura, e il solo che valga nelle manifestazioni del linguaggio»8
Ma che cosa vuol dire che la poesia si fa, fra il taglio della forma e il contagio? E questo farsi, che cosa fa della poesia? E dove vi si attaglia un soggetto (la cui vita «prossima» s’è fatta così «lontana»), se la poesia, nel momento in cui si fa, è una faccenda al medio, all’impersonale, e procede per compagnia? Innanzi tutto, sembrerebbe suggerire Raboni, la poesia, se si fa, «non è»9; ed è una prima acquisizione, un’indicazione di metodo critico, che non potrà che essere accolta con fastidio nei luoghi in cui la poesia è pur sempre supposta essere (lì dove insomma la poesia, o la sua spoglia inerte, è oggetto di un sapere che viene detto trascendere, e dispensare al contempo, a farsene bravi ripetitori, o umili servi nella sua vigna, di ruoli e prebende; da cui l’«insofferenza» di Raboni «per canoni stabiliti e storicizzazioni predigerite»)10. La poesia non è, o meglio non sarebbe altro che un «atomo ronzante», per dirla ancora con La malattia dell’olmo, in attesa di centrare «a colpo / sicuro […] / dove più punge e brucia»; non è, insomma, se non si fa, esattamente in quell’incontro «a colpo sicuro» nello «spazio in cui siamo, che siamo», e in cui colui che si è ritratto nell’atto di guardarci dal ritratto, è solo una figurina di sbieco che «fissa attualmente un luogo che di attimo in attimo non cessa di cambiare contenuto, forma, aspetto, identità»11 (alla fin fine il soggetto, persino il tanto temuto «io lirico», è sempre stato soltanto questo: una funzione in cerca di chi la metta in funzione).
Il presunto autoritratto del critico che «apre a caso» (o apre al caso) era dunque in quella recensione innanzi tutto un’indicazione di lettura (uno schema in piano del processo poetico stesso), un’esplicita dichiarazione, insomma, che il farsi della poesia sta esattamente nella risonanza fra l’instabile fissazione «attuale» (Badiou la definirebbe, per la sua «ontologia transitoria», un «assioma che prescrive senza nominare») e la molteplice mutevolezza evenemenziale (il «trans-essere» dell’evento)12. Un processo in contuizione, insomma, per ribadire un tomismo rimesso in circolo da un autore di vertigini, e di processi consapevolmente compagnonevoli13, molto amato da Sereni, Pizzuto. La poesia che si fa prevede dunque una lettura tomografica, un farsi della poesia (un’eco dopo l’altra) nella persona di un compagno (la poesia è esattamente quel compagno); da cui il primo imprescindibile slittamento critico che Raboni sembrerebbe avere coerentemente applicato, quello che dal «come funziona» dei coercitivi e mai troppo chiari libretti d’istruzione (e repertori lessicali, tassonomie sintattiche, tavole di regolarità metriche…) conduce al «come mi funziona» di chi studia i propri parassiti. Non si tratta naturalmente di una riattualizzazione della «critica del gusto», perché l’autoascultazione in questione è innanzi tutto riconoscere l’intima estraneità del compagno, diciamo pure dell’agente patogeno esterno, dell’antigene, una volta divenuto tutt’uno con il proprio anticorpo, opportunamente degenerato. Verrebbe, se mai, da chiamarla «critica del guasto», o quanto meno di quello che, inferto (come l’«aculeo» sereniano), si rimette deleuzianamente in funzione14. Nella poesia che si fa, allora, «qualcosa salta fuori dalla pagina», perché la pagina non ha mai contenuto la poesia (non quella che si fa, se non altro), e nel suo saltar su, venir via, non necessita di «interpretazione» ma di quella «macchinazione» con cui il compagno saprà reperire, e infine intercettare, «una corrente d’energia»15.
La poesia si fa, dunque, innanzi tutto in quanto «trans-essere», e procedimento compagnonevole che sappia liberarne la corrente di energia (il «come mi funziona» della «critica del guasto» mette in risonanza due questioni fondamentali per la poesia, anzi per ogni procedimento estetico: «come si mette in funzione?», «come mi mette in funzione?»). Da ciò consegue che, a ben vedere, quella che Mengaldo ha definito la critica «tentativa» di Raboni (con tutte le sue «espressioni di cautela, approssimazione, ipotesi»)16 è sì una «critica-critica» (e non una critica en poète), ma esattamente nel senso in cui una «critica-critica» è l’atto stesso della poesia, la poesia nel suo accompagnarsi. La critica «tentativa» e la poesia che si fa sono aspetti di un unico processo in divenire, quello che farà fluttuare in un essere di percezione, in un «trans-essere», l’«aculeo» e il suo «fuoco», cioè «le forze insensibili che popolano il mondo e che ci colpiscono, che ci fanno divenire»17. Il che naturalmente non vuol dire che la poesia abbia bisogno del suo bravo critico in livrea, o della sua pletora di critici (secondo quella coazione pseudocopulare che si scorge nelle dichiarate strategie, addirittura sorgive, di Ungaretti, poniamo, o in quelle conservative, omeostatiche di Montale). La poesia avrebbe bisogno del critico per essere (esaminata, confezionata, e ammannita a generazioni e generazioni di riconfezionatori); ma, si diceva, la poesia «non è», si fa… critica, sempre, o sempre che incontri il compagno. A pretendere di essere, insomma, è il «fantasma della poesia», quello che non a caso Raboni si prefiggeva di «rimpiazzare» con «la poesia in carne e ossa»18 , cioè con quella poesia che «non è» se non in attesa, come la paziente zecca deleuziana, della sua carne (della carne «in cui siamo, che siamo», nel momento in cui incrociamo lo sguardo di Velázquez).
La poesia è dunque una traiettoria, un transitare fra molteplici stazioni riceventi (il compagno consente la ricezione al terzo, che una volta ricevuto lo «sguardo» si ritrae nell’atto stesso di farsi compagno e dettare la postura a un ulteriore terzo), fra le quali solo il «fantasma della poesia» (scapolato via dalla più languida delle ghost stories romantiche) si aggira alla disperata ricerca di un’emittente. Questa figura della metastabilità degl’intrecci dà certo ragione del «canone aperto», o «plurale», come l’ha definito Andrea Cortellessa19, desumibile dalla molteplicità di poeti con cui Raboni ha voluto accompagnarsi20, che parrebbe magari avere una sua anticipazione, o persino un archetipo (e di quelli che fanno pensare, come tutte le «convenienze» involontariamente foucaultiane), in quello che a partire dal 1954 (e poi dalla ristampa riveduta del 1962) sarebbe divenuto il capolavoro della poesia barocca italiana: l’antologia dei poeti marinisti di Giovanni Getto21. La prima generazione poetica pienamente tipografica e di massa, e l’ultima di cui si è fatto durante tutta la sua vita compagno Raboni, coincidono sùbito, anche a una prima occhiata, nella giubilazione della presunta sacralità dell’Autore in nome di una (già del tutto, per la prima, e già in extremis, per la seconda) borghese intellettualità diffusa.
Ma questa stessa figura molecolare, o neuronale, rende anche conto di un altro senso della traiettoria, quello che nel suo tracciarsi disambigua una volta per tutte il sostantivo modificato dalla clausola relativa in odore di participio (al medio). Dal momento che, quando Raboni parla di «poesia», della «poesia che si fa», non si riferisce mai al singolo componimento in versi (per cui, quando occorre, userà il plurale, «poesie»)22, nello stesso modo in cui nelle sue recensioni, pur tanto strette ai panni dei testi, solo con estrema parsimonia ricorrerà alla scappatoia della citazione (e quando lo farà, s’è visto, dovrà innanzi tutto entrare nel quadro, farsi figura fra figure, per poi guidarci all’ascolto di… «alcune parole»). Ma la poesia, debellato almeno in questo caso il suo «fantasma» (sia nella soluzione effervescente di un senso senza corpi, sia nella confezione a compresse di un corpo senza senso) non è nemmeno la capacità di sommuovere l’animo altrui (come vuole l’estensione figurale più diffusa). La poesia è solo l’arte e la tecnica di esprimere (e propagare) in porzioni di linguaggio memorabili l’«irritazione», cioè la spina irritativa (l’«aculeo») e il corpo che l’ha accolta (il «fuoco» che fa sì che la si senta dentro, anche una volta estratta; dal momento che è di quella spina irritativa che vive la poesia nei corpi). Da ciò consegue che la poesia non si fa in un suo attimo sospeso, unico, irripetibile, non è mai una faccenda conclusa, né tanto meno una sopravveste che possa, una volta opportunamente cucita, ricoprire un corpo (più la poesia si fa, più non esistono i poeti… i poeti-Mida, quelli che a ogni tocco fanno poesia, sono gli stessi che poi devono coprirsi con un lenzuolo per andare a spaventare per ridere i bambini).
«Non si è poeti una volta per sempre», scriveva Raboni nell’atto di macchiarsi, era il 1971 di Satura23, di lesa maestà montaliana (suscitando uno sdegno corale ancora non sopito); «si è quei poeti solo nel punto, momentaneo anche nell’estensione, in cui l’angolo di personale pronunciabilità del reale che a ciascuno compete come dato e immutabile […] si sovrappone senza scarti alla porzione di realtà che la forza o la vulnerabilità di un esistere porta a soffrire, a penetrare, insomma a rendere in qualche modo “giusta” e significante»24. Insomma, per riposizionare il tutto per l’ultima volta fra le ombre de Las Meninas (dove, lo si sarà capito, in primo piano, nell’immutabilità della loro posa, damine e nani sono solo fantasmi), nella poesia che si fa s’intaglia un poeta nell’instabile cono d’ombra («l’angolo di personale pronunciabilità del reale») che una fissazione «attuale» (il «punto, momentaneo anche nell’estensione») detta sulla molteplice mutevolezza evenemenziale (la «porzione di realtà che la forza o la vulnerabilità di un esistere porta a soffrire») fino a renderla «significante» (cioè compagnonevole, critica). In questo senso la memoria che «non si sfama mai» (non è questa, non già il poeta, ma la funzione del poeta?), che lascia il suo «fuoco» anche nell’atto di «abbandonarsi» all’«ombra» della vita (a quella stessa «ombra» che si detta sulla vita), non ha nulla a che fare con il ricordo (con quel vano inseguire il «proprio» nell’altrui), ma con una liberazione della vita al di là della «porzione di realtà» sofferta, in qualcosa di «giusto» (ma nel senso del participio forte) e «significante», cioè, per dirla con Deleuze e Guattari, in un «blocco di sensazioni», in un «composto di percetti e affetti»25. Come per l’arte dell’intero Novecento, secondo Alain Badiou, si tratta di «estrarre» dalla «miniera della realtà», e nei modi dell’«artificio volontario», un «minerale reale duro come il diamante», magari a costo di sacrificarvi l’arte stessa, pur di non «cedere sul reale»26.
La traiettoria, allora, della poesia che si fa non è solo quella che rimbalza fra compagno e terzo da rendere a sua volta compagnonevole, ma è anche quel processo per cui non si è «poeti una volta per sempre», per cui insomma la memoria che «non si sfama mai» moltiplica per l’arco della vita stessa la successione di «angoli di personale pronunciabilità del reale» nel susseguirsi di «porzioni di realtà che la forza o la vulnerabilità di un esistere porta a soffrire». Da cui l’aperta antipatia mostrata da Raboni per ogni poeta divenuto tale solo nel ribadimento, via via più monumentale, di un unico incontro fra quell’angolo di pronunciabilità personale e porzione di realtà sofferta. Piuttosto che popolare con gli echi di un unico evento la propria sopravvenuta sordità (che è sempre una teoria di acufeni), su questo Raboni è perentorio fino all’intransigenza, sarebbe magari auspicabile volgerla in silenzio, per quanto a lungo questo possa durare (tanto a lungo, magari, quanto gli oltre trent’anni che l’abitò l’amatissimo Rèbora), se mai per poi sortirne per «incorporare», e «pronunciare», proprio quel silenzio, così che il farsi della poesia maturi, dalla frequentazione stessa del suo guasto, «una diversa densità sonora»27. Da ciò consegue che per Raboni la rinuncia al farsi della poesia da parte di quei poeti che preferiscono, accompagnati dagli offici sacerdotali con cui gioiosamente li si circonda, abitare il proprio monumento28, non solo li allontana dal magma in cui la poesia si fa, ma inocula al contempo un dubbio sulla giustezza dell’intera traiettoria29. Se la poesia si fa, insomma, si dura fatica a restare poeti.
In quelle «metafore da definirsi “direzionali”», dunque, se non «di “tensione”», reperite da Mengaldo come una delle caratteristiche della scrittura critica raboniana, sempre pronta a privilegiare quel «poeta, o scrittore, che da una situazione a muova verso una b30, se è vero che parrebbe rivelarsi, dal momento che la tensione fra i due punti può risultare anche «perfettamente sincronica», un’«attitudine diciamo dialettica» (che «non si appaga di fissare l’esperienza di un autore in un carattere dominante ma vede necessaria la compresenza di almeno due tensioni»)31, è altrettanto vero che s’intravede la messa in figura proprio del secondo senso della traiettoria tracciata dalla poesia che si fa, quello che attribuisce al poeta, per ribadire il titolo della recensione a Stella variabile da cui si è partiti, la funzione di procedere per «aggiustamenti progressivi della vita», così da rendere quest’ultima, per l’appunto, «giusta» (ecco il senso del participio forte) e «significante». Difficile non reperire in tale posizione l’esito estremo di un materialismo dialettico assolutamente non di maniera, che proprio la raccolta di saggi curata da Andrea Cortellessa mette a giorno nel suo durare, innestando, per prescindere al momento dai profili complessivi (come quello, fondamentale, apparso nel volume di aggiornamento della Storia della Letteratura Italiana diretta da Sapegno), sugli studi più corposi dedicati a singoli poeti (sempre chiamati alla prova della loro traiettoria) un’infiorescenza di interventi puntuali che è come se si fossero previsti, o avessero semplicemente atteso al varco i sempre penultimi «aggiustamenti progressivi» con cui, nella poesia che si fa, qualcosa «continua» e qualcos’altro «comincia», «compare per la prima volta» (se mai in quella «luce fragile e ferita da primo inverno o da crepuscolo»32 che magari è l’unica in grado di mettere per davvero a fuoco, genealogicamente com’è necessario, quel «come si diventa ciò che si è», con cui, senza mai ritrovarlo, si ripercorre il senso di una vita)33.
È questo l’indiscusso valore attribuito alle parabole (da cui solo per etimo si estraggono, «giuste» o giustapposte, «alcune parole») dei poeti più frequentati dal Raboni critico, a partire ovviamente da Sereni, passando per Betocchi, Bertolucci, Luzi, Risi, Giudici, Caproni, Cattafi, Zanzotto, per finire, prescindendo al momento dal riaffiorare di Fortini (o dall’attenzione per i più giovani), con la produzione tarda (ma sorprendente) di Toti Scialoja, se mai da usare come contravveleno, a partire dagli anni Novanta, all’«imperversare di repliche novecentesche sempre più pallidamente conformi e informi»34. Ora, a seguire la gittata di tutte queste traiettorie (con la sola eccezione di quella tarda di Scialoja), che replicano e propagano ciascuna a suo modo quell’«immagine intermedia [fra continuità e rottura] della modificazione» ritenuta tipica dei «poeti del secondo Novecento»35, e del loro, non tanto metabolizzare, quanto avvolgere piuttosto di sostanza traumatica la spina irritativa par excellence, quella del fascismo e della sua guerra36, una direzione in qualche modo comune a tutti parrebbe emergere, sia pure in un ventaglio di varianti vasto quanto la pluralità del canone di cui si diceva, ma sempre nell’urgenza della «necessità di un confronto più esplicito e apertamente drammatico con la realtà»: il più o meno «imprevisto scartare in direzione dell’orizzontalità della prosa, a sua volta attratta e catturata dal respiro prosodico»37. Percorso, questo38, nel quale Raboni poteva allineare «l’andarsene [da vecchio] coi lunghi passi della prosa» di Betocchi39, i «grumosi […] spessori lirici del primo informale» di Bertolucci40 (che avrebbero poi supportato la successiva e più compiuta esplosione narrativa), la «poesia essenzialmente non metaforica» di Risi41, la «vibrazione continua» disegnata dal grafico della «bipolarità» di Cattafi42l’«“onnivoracità” linguistica» di Antonio Porta43, il «realismo lirico» venato di «robuste suggestioni prosastiche» di Cucchi44; e poi, scalando verso tranches narrative più esplicite, Pagliarani, Pasolini, Leonetti, Giudici e persino l’Ungaretti «insolito ma non certo marginale» di Monologhetto, e finanche, con un ulteriore salto di livello (sfondando insomma verso il macrotestuale), e con un vistoso testacoda che risulterà utile alla prosecuzione di questo discorso, «il romanzo implicito nel Canzoniere di Saba»45.
Tralasciando per il momento questo ultimo caso, il movimento processuale che s’intravede nella traiettoria della poesia che si fa (che, lo si sarà capito, è esattamente quel vettore che fa della poesia un’istanza disposta a rinunciare persino a se stessa, direbbe Badiou, pur di non «cedere sul reale») parrebbe tutto sbilanciato sulla sereniana «tentazione della prosa», e sulla sua dichiarata «dialogicità», se non «interdiscorsività»46, ovvero su un procedimento (epico?) che, perseguendo «la tensione […] fra verticalità lirica e orizzontalità narrativa»47, se mai come «pratica di uscita dal cerchio magico del sé» (con cui mandare per le terre anche il concettoso antiself montaliano)48, agisce sul piano formale come un elemento altamente corrosivo, non solo respingendo in blocco le misure e le forme della tradizione ancora parzialmente ritenute frequentabili dai poeti del Novecento (endecasillabo e sonetto su tutte), ma disperdendo con eguale avversione anche l’intera gamma cromatica di piccoli e grandi aggiustamenti metrico-formali che aveva dato vita alla koinè poetica rimbalzata (ma sempre «ermeticamente») fra Ungaretti e Montale. D’altra parte, proprio con l’annessione del macrotesto del Canzoniere sabiano alla compagine dei congegni poetici propensi più a «raccontare» che «a non dire altro che se stessi»49, e in uno scritto fra l’altro che risale non a caso al 1984 (negl’immediati paraggi dell’uscita di Canzonette mortali), Raboni innanzi tutto irrobustiva il concetto di tensione genealogica50implicito nel movimento processuale che attribuiva sempre ai suoi poeti (e di cui magari proprio il ripensamento cui Sereni aveva assoggettato, per l’edizione del 1965, Diario d’Algeria avrà svolto figura di emblema), ma finiva anche con l’indicare due direzioni decisamente alternative rispetto a quella fin qui tracciata, aprendo da un lato la strada (che però, va detto a scanso di equivoci, da critico, ma non da poeta, sùbito disertò) a un’analisi degli organismi pensatamente macrotestuali della poesia del Novecento e oltre51, e dall’altro mostrando una possibilità fino a quel momento inedita di riutilizzo delle misure e delle forme della tradizione, da impiegare se non altro come materiale edile nella costruzione di una «raccolta di poesie» con conclamata architettura narrativa (così come del resto lo stesso Saba, come avrebbe notato Lavagetto, a partire dall’Autobiografia si era «servito del sonetto come di un’unità di base per scandire i tempi e i modi della propria narrazione»)52.
Una volta riconvertita in sede critica, con un rivolgimento che avviene come s’è visto per gradi, ma non per questo meno sorprendente (e che occorrerà seguire nel suo compiersi), la «tentazione della prosa» in una polivalente tensione al narrare, con il duplice valore di testimonianza puntuale e politica (nel singolo testo) e di complessiva (nel dispiegarsi della forma-raccolta) «storiografia espressionista»53, potrà apparire meno contraddittorio che la parabola della poesia che si fa eletta da Raboni per le sue strategie testuali sia andata esattamente nella direzione opposta, rispetto a quella tracciata dalle officine poetiche così tanto scrupolosamente passate al vaglio dal critico. Partita dalla koinè conseguita all’assunzione a norma di quella «vasta poetica novecentesca in cui il pensiero di Croce si intreccia in modo solo apparentemente mostruoso con l’ermetismo mallarmeano»54, ma sùbito corrosa dal suo interno da quella narrativa «funzione Rèbora»55 pienamente eletta ad antidoto già ne Le case della Vetra (e, con il senno di poi, persino in Gesta Romanorum), la traiettoria della poesia raboniana incrocia prima le suggestioni della testimonianza politica mescidata di informale e di atonalismo (ma sempre issando un’ossatura formale poco propensa a rinunciare del tutto alla percussività delle misure di tradizione)56, per risolversi infine, come si sa, in una sempre più vistosa regolarizzazione metrica (a partire proprio da Canzonette mortali) che giungerà a eleggere come proprio congegno virtuoso, da appaiare a un ulteriormente ripensato poème en prose, il mai troppo rivitalizzabile, perché sempre mortificabile, sonetto57.
Se questa è la parabola complessiva che si desume dal farsi della sua poesia, tracciata quasi controsenso al canone, plurale sì ma non per questo ecumenico, che andava via via costituendo come critico e compagno, sarà allora il caso di chiedersi secondo quale principio propulsivo Raboni pensasse di collocare questa nuova traiettoria, e quali altri compagni sentisse percorrere quello stesso senso, inverso, della strada. Non stupirà allora innanzi tutto che, dovendo discretamente collocare anche se stesso nelle teche dei Poeti del secondo Novecento, Raboni si riservasse soltanto con un certo malcelato fastidio un campicello in quella zona vasta e «oggettuale» che definiva, con altri, «area lombarda»58 (che era già a suo modo una rarefazione, se non un’esplicita messa in questione, non certo delle «proposizioni» di Anceschi, ma sicuramente del loro configurarsi in una «linea»)59, preferendo piuttosto per sé, per anagrafe e vocazione si potrebbe dire, la compagnia più numerosa60, ma di certo più disincantata, di quei poeti divenuti adulti nella metà degli anni Cinquanta, in qualche modo fortificati dalla disillusione di un evento (i fatti di Ungheria) e pronti a vivere intensamente, e contraddittoriamente, «i fasti, al tempo stesso divaricati e simmetrici, del neocapitalismo e della neoavanguardia»61. Per Raboni, dunque, esisteva una sorta di interzona fra l’«area lombarda» e quella, decisamente deterritorializzata, frequentata dalla «generazione del ‘56» nella sua interezza, e che a lui sembrava possibile perimetrare, sulla scorta proprio «di certe posizioni e proposizioni critiche di Anceschi (lungo il percorso che va dalla Linea lombarda a “Il Verri”)», con questi paletti: «poesia in re, scarsa o compressa propensione lirica, determinanti componenti gnomiche, lettura approfondita di Eliot e di Pound, riscoperta della “funzione” Dante ecc.»62. Si trattava insomma di quella «vasta, articolata area sperimentalistica e sperimentale»63, entro la quale Raboni stipava, a dispetto delle diverse strategie testuali, e in taluni casi già di marketing, i Novissimi, la maggior parte dei loro «compagni di strada», e persino «alcuni autori che è stato per qualche tempo possibile ritenere, e non a torto, degli oppositori o antagonisti della neoavanguardia organizzata», fra i quali, consentendosi una «rapidissima notazione personale», poneva per l’appunto se stesso64.
Se dunque appare chiaro che Raboni aveva per tempo eletto per sé quella «posizione» che, proprio nell’atto di prendere nel 1961 le distanze dal presunto «centrismo» dei Novissimi (e al contempo dal «ritorno volutamente antiproblematico agli “oggetti poetici” degli anni Trenta» della poesia ancora «ermetizzante») aveva definito «di sinistra»65, per ricercare invece i compagni di quella strada che avrebbe successivamente preso (apparentemente) in senso inverso, occorrerà per prima cosa segnare le tappe della sua riacquisizione della forma sonetto (come contenitore di grumi narrativi e come tessera di un più vasto piano di narrazione), attraversando innanzi tutto la progressiva regolarizzazione metrica in opera a partire per l’appunto da Canzonette mortali (la cui uscita non a caso precede di un anno l’apparizione del saggio per la Storia della Letteratura Italiana di Sapegno). Risalenti al triennio 1981-1983, le due sezioni della raccolta (Canzonette mortali e >Lista di Spagna)66 si strutturano in una successione di individui (fra loro connessi) relativamente brevi (mai oltre i dieci versi) le cui misure, raramente parisillabiche (decasillabo e dodecasillabo, ma quest’ultimo mai senario doppio, derivando piuttosto dalla connessione quinario-settenario), spaziano innanzi tutto fra endecasillabo (di gran lunga il verso più utilizzato, e nella sua resa regolare), settenario, novenario e allessandrino, ma non disdegnano il quinario, il ternario (talvolta risucchiato dal verso successivo, come nell’incipit di Lista di Spagna, che «recupera»67 così l’ottonario seguente risolvendolo in un endecasillabo novecentesco: «L’amore / lasciato lì con le zampe») e il tridecasillabo (segnatamente il verso conclusivo, in realtà un novenario con coda quinaria, di Canzonette mortali: «ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce»). Andrà messo in risalto, al momento, che se da un lato è vero che la strutturazione formale di Canzonette mortali, col suo frastagliare versi imparisillabi con predominanza endecasillabica, non è del tutto inedita nell’opera di Raboni (si pensi, per limitarsi a un unico esempio, a Per C., morta di parto all’età di un anno e undici mesi di Cadenza d’inganno)68, è altrettanto vero che l’averla eletta a unica struttura possibile (rispetto alla variegata gamma formale di Nel grave sogno, raccolta apparsa solo tre anni prima), anzi a misura propria della lirica erotica e amorosa, consegue a un evento che, se fu biografico (e tale per l’appunto qui tematizzato), non per questo non ebbe ricadute sull’altrimenti sorprendente folgorazione formale che prende il via da questa raccolta. La «poesia che si fa», si fa innanzi tutto con gl’incontri; e su questo si avrà modo di tornare.
Non a caso è proprio con la raccolta successiva, Versi guerrieri e amorosi (apparsa nel 1990)69, che questa progressiva regolarizzazione metrica si slancia verso forme più codificate, e proprio nel momento in cui appare conclamata la volontà di connettere, attraverso il tu d’amore di Canzonette mortali (non già il «tu / falsovero dei poeti» messo definitivamente in crisi proprio in Stella variabile)70, e dunque attraverso la persona (e la voce) che lo sostanzia (per poi giungere, da questo lettore ideale, perché reale, a tutti noi), la tematica erotico-amorosa con un’intima necessità di raccontare la propria storia innervata nel trauma71. Secondo le modalità, insomma, di un autentico passaggio di consegne («è per restarti che non sono morto», conclude l’unico sonetto endecasillabico della raccolta, con quello che si potrebbe eleggere a motto della «poesia che si fa» in cerca del suo compagno), l’amore ritrova quella guerra, la ridice, la rivive (al futuro anteriore, dove coincidono il passato e il tu a venire), la consegna (attraverso proprio quel tu) non come commemorazione (e monito), ma, attraverso la progressiva (e via via più ossessiva) riemersione del fantasma paterno, come la kafkiana ferita aperta che più si occulta più va in cancrena, e della quale si vive72. È dunque in questa raccolta che appaiono i primi sonetti, si dica pure espliciti, dell’opera raboniana, in un numero tutto sommato esiguo, anche se a ben vedere la forma s’intravede in filigrana in molti componimenti (a due, a tre o a quattro quartine di endecasillabi, assolutamente regolari, settenari, ottonari e novenari, molto spesso con una coppia rimica replicata fra prima e seconda quartina)73. Ma i soli tre sonetti conclamati anticipano di già quelle che saranno le caratteristiche della successiva completa riappropriazione della forma (quella che condurrà Raboni a «pensare sonetti»), a partire dal primo, un individuo in settenari (Non stava a noi risolvere), che preannuncia il virtuosismo in minore dei Sonetti di infermità e convalescenza di Ogni terzo pensiero, per proseguire con il secondo (Troppi anni e mesi e giorni e notti e sogni), endecasillabico ed elisabettiano74, così come risulterà poi la forma eletta dell’intera terza sezione di Quare tristis75, per finire con l’ultimo (Amavo nel fuoco di legna), a sua volta shakespeariano ma in misura novenaria.
Ed è esattamente con Ogni terzo pensiero che il sonetto diviene la forma necessaria alla narrazione a mosaico di un evento e dei suoi effetti, quali possono essere stati una degenza ospedaliera (cui fa riferimento la corona di Sonetti di infermità e convalescenza), e il complessivo conseguente riposizionamento del valore testimoniale della poesia che si fa su un confine divenuto ancora più sottile, e permeabile, fra la vita e la morte (e fra i morti e i vivi). Rallentato, e rinsecchito (con tutte le sue ritentate tonalità minori), in fluttuanti fotogrammi ospedalieri, e poi di nuovo dilatato e deformato, nell’ultima sezione del libro, dal propagarsi di una cortina di tempo sospeso in un «grave», ovattato e vitale sogno76, replica eco e compendio del male sofferto, il sonetto si offre qui, nella sua seriazione (che coincide però con la messa in crisi della sua forma classica), come tessera di un complessivo piano narrativo (in cui, fra il rimuginio del dormiveglia e dei sedativi, o il nitore dei soprassalti del lavoro onirico, s’innesta l’ironia di un unico movimento, o «attraversamento» che prevede di già il suo senso inverso: la marcia, al solito affidata a un poème en prose,che si canta nella sezione intermedia, Piccola passeggiata trionfale). Ma, si diceva, l’esplosione in senso propagativo della forma coincide con la sua intima implosione, come appare chiaro a partire dallo stesso sonetto chiamato a svolgere funzione di prologo. Ombra ferita, anima che vieni, difatti, denuncia già tutti gli effetti degli acidi e dei solventi (prosastici, ma di una prosa smangiata dall’irregolarità del respiro) che corroderanno la forma nell’ultima sezione della raccolta (quella che accoglie il maggior numero di individui, contandone 27, ed endecasillabici per giunta, ma accontentandosi di definirli, soggiogandoli al dunque alla coroncina dei minori, Altri sonetti), alla quale fra l’altro sarà stato presumibilmente sottratto in corso di costruzione dell’edificio77. Rime fragili, da parlato (peggio, da balbettio)78, spesso squalificate in imperfette, accavallamenti di ogni tipo, anche (anzi soprattutto) transtrofici se non fra fronte e sirma79, cesure di frequente fuori norma (quando va bene liriche), ma sempre sintattiche e in grado di far risaltare unità transversali alternative (settenari, novenari, endecasillabi ulteriori), tutto concorre, nel prologo e nell’intera sezione cui rimanda, alla resa di un sonetto fluente, inarrestabile, spesso risolto in un unico periodo (secondo antecedenti di tradizione ben noti), ma comunque percorso in snodi sintattici da svolgere in volata, o da stravolgere piuttosto nelle pause aberranti del metro. Non è la «tentazione della prosa» che torna come il convitato di pietra80; è la rinascita, e riattualizzazione, di un congegno ancipite81, o se si vuole schizofrenico, sospeso fra la memorabilità del metro e la pronunciabilità (non cantabile, farfugliabile) dell’ossessionante modulazione continua con cui fa capolino quell’ospite (naturalmente «ingrato») che sta sempre lì a torcerci la bocca, e che l’ultimo Lacan chiamava, inorridendo che non se ne inorridisse, «parasite parolier»82.
Rispetto al frastagliarsi di soluzioni metrico-formali dei sonetti contenuti nell’ultima sezione, i nove che costituiscono la coroncina iniziale esaltano, e al dunque esacerbano, la scelta del trobar leu, se non altro per essere tutti, in vario modo, e in modi anche inusitati, minori. Anzi, proprio la realizzazione più diffusa del comunque sempre poco in uso sonetto minore, quella settenaria, viene in qualche modo scartata da Raboni (un’unica occorrenza, Il fievole tormento), che predilige di gran lunga la resa più cantabile, quella in ottonari (ben cinque)83, seguita da quella in novenari (due). L’unico in senari, l’iniziale, immette immediatamente nell’atmosfera antipurgatoriale della corona, situando il soggetto in una sorta di sospensione meno che pensosa (magari autoauscultante) che rende in qualche modo compresente ma inerte il doppio movimento temporale che animava il futuro anteriore di Versi guerrieri e amorosi (e che, con una gittata più lenta, si è visto riattraversare gli Altri sonetti). Il riferimento a Samuel Beckett in prima battuta («Il vuoto non manca, / lo attesta il sapiente / d’Irlanda alla mente / che si sfiata e stanca // in cerca del niente»), se parrebbe esplicitamente richiamare le strutture frante, fulminanti e ritornellate delle mirlitonnades, senza nemmeno derogare dal loro garbato umorismo84, occorre in realtà a far scivolare il presunto io lirico (un «io» beffardamente disperso fra intrichi di fili e spie luminose, e lirico soltanto nel suo ottundimento narcotico) in quello stesso «punto di indifferenza» fra «barbarie discorsiva e palliamento poetico», in cui Beckett, secondo una colorita espressione di Adorno, era «andato a ficcarsi». Difficile però non avvertire anche altre presenze, attestate sullo stesso registro «medio-breve» musicale e cantabile, magari proprio sul solco della tradizione della canzonetta melica (qui astutamente rivestita della decorosa livrea del sonetto), che, rivitalizzata già dal primo Betocchi (ma con archetipi straniati già nei Frammenti lirici reboriani)86, era nel frattempo giunta a innervare quel «pensiero-musica o musica-pensiero» che il critico Raboni aveva riconosciuto in una delle due maniere (quella per l’appunto del «registro “minore”») di Caproni87. I Sonetti di infermità e convalescenza, frantumando metro e sintassi, perseguendo «combinazioni dinamiche in perpetuo squilibrio», filano via verso «un uso minore della lingua maggiore»88, e rappresentano il giro di volta, cioè esattamente quel processo di minorazione (e sempre nel senso musicale)89, che consentirà, attraverso la messa a punto dell’endecasillabo a cesura sintattica e l’impiego delle rime deboli di Altri sonetti, quel complessivo ripensamento della forma che trova il suo esito estremo in Quare tristis.
Anche in questa raccolta, difatti, Raboni ribadisce il privilegio che ha via via assegnato alla forma, chiamata a dare corpo a due delle quattro complessive sezioni, vale a dire la prima (una corona di 19 sonetti) e la terza (26 sonetti elisabettiani seguiti da un ultimo individuo strategicamente troncato, quasi a segnare il limite estremo dell’adesione al congegno, nel vivo dell’ultimo verso del secondo quartetto)90. Tutte le strategie formali in opera in quello che si è precedentemente definito sonetto ancipite (soggetto cioè, al tempo stesso, alla compostezza del congegno e allo squilibrio del ritmo del parlato rimuginato, e passibile pertanto di una doppia esecuzione) vengono qui ulteriormente perseguite, a partire da un affievolimento ancora più radicale della rima stessa, sia perché trascorsa in unità transversali (e sintattiche) divenute ineludibili91, sia per il consueto privilegio accordato alle varietà desinenziali, grammaticali, identiche, irrelate92, ipermetre, equivoche e contraffatte93, sia per essere essa soggetta a un regime complessivamente imperfettivo (e poi immediatamente correttivo) che sfiora talvolta il virtuosismo94. Ne deriva una forma definitivamente riconsegnata alla sua fluidità, capace di rappresentare non già la semplice mescidazione del flusso memoriale con il raggelamento di quello percettivo (secondo un topos di tanta sonetteria del ripensamento, da Petrarca in giù, e di tantissima poesia informale) ma di favorire piuttosto l’insorgere di un’area intermedia, che a sua volta non è più l’intorpidimento narcotico dei Sonetti di infermità e convalescenza o il troppo vivido sogno (o joyciano incubo della storia) degli Altri sonetti (e dei tre individui di Versi guerrieri e amorosi). Quest’area intermedia di espressione, questo luogo da cui prendere la parola in cui il soggetto consuona (e risuona) nel suo sonetto ancipite, rimane piuttosto «in bilico / sulla frana del sonno» (com’è detto nel diciassettesimo individuo della prima sezione, o «sulla riva del sonno», come recita invece il nono della terza), vale a dire in quella terra di nessuno (e dunque di tutti) dove non si sogna, non s’interpreta né s’insegue pensieri fecondi ma si vibra come una «membrana» all’assolvere e dissolvere di voci-immagini, il cui senso sta tutto nella loro capacità di farsi sentire.
Se il cosiddetto io lirico, o comunque il suo residuo, si configura allora in Quare tristis come un di meno di soggetto (una «membrana», recita il sonetto incipitario, «fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome»), e dunque come un semplice «luogo di risonanza»95, ciò non solo vuole dire che la forma finirà col fare tutt’uno con questo stesso «soggetto all’ascolto», divenendo cioè una specie di stazione ricevente di tutte le «spoglie fruscianti» cui alla fin fine si riduce il «cerimoniale del verbo»96 (e sarà magari questo sotteso richiamo radiofonico a dare senso al lapsus con cui comincia, e si bisbiglia, il settimo individuo: «ricevitoria del lutto»)97, ma che detterà anche al contempo le sue stesse regole di esecuzione. Una volta convocato il lettore a rimuginare le stesse modalità di ricezione che rendono indistinguibili il «soggetto all’ascolto» e la stazione ricevente con cui questi si dà forma (una volta cioè predisposto chi legge a dirsi lo stesso dirsi «membrana», per accludersi in tal modo «allo zero che moltiplica»98 e fungere una volta per tutte, con il necessario stropiccìo di labbra, da io-bisbiglio), Quare tristis potrà emettere quella flebile polifonia che rende la sua forma più ricercata, e frequentata, una sorta di congegno esplicitamente tomofragico, cui magari sarebbe il caso di dare il nome, per ricorrere a un facile gioco, di «sonetto all’ascolto»99; e all’ascolto di tutto quanto non ha ancora finito, nell’insulto di una vita e nella sostanza traumatica della storia, di finire100. Né potrà allora stupire che questa stessa tensione polifonica abbia contribuito alla messa in crisi del congegno, da un lato spingendo Raboni verso ulteriori «cantabilità» dove poter rappresentare la «persona una e triturata / una e dispersa» in cui si è via via definitivamente (e politicamente) dissolto il soggetto101, dall’altro dilatando l’ascolto verso misure più ampie (quelle per l’appunto delle selve di Barlumi di storia), preannunciate del resto già dagli «sciolti» dell’ultima sezione di questa raccolta102.
Se dunque la traiettoria della poesia che si fa raboniana, ed esattamente mentre persegue quella tensione al narrare che il critico reperiva nelle officine poetiche ritenute capitali del secolo, disegna in qualche modo una spirale, che si curva verso le misure regolari all’altezza di Canzonette mortali per poi riconvergere su un esito più discorsivo di quelle stesse risoluzioni solo dopo un lungo riattraversamento, e ripensamento, delle forme della tradizione (e di quella canonica per eccellenza), sarà allora il caso di tornare a chiedersi quali fossero i compagni che Raboni riconosceva avere intrapreso in quello stesso senso inverso, paradossalmente metrico, la strada dell’indistinzione fra prosa e poesia. Tornando a scorrere anche rapidamente, e secondo la cronologia storico-letteraria eletta a scheletro dell’opera, il volume curato da Andrea Cortellessa (e dunque riesaminando ancora una volta la parabola del compagno della poesia che si fa tracciata, con tanta passione, per circa cinquant’anni da Raboni), i risultati dell’indagine potrebbero apparire sorprendenti, solo a non tener conto delle argomentazioni fin qui svolte.
Innanzi tutto, come si diceva, occorre risalire alla «liscia compattezza» di Saba103 e alle tessere narrative del suo Canzoniere, per poi ritrovare, sull’altro corno si potrebbe dire (quello della tensione barocca, e di una certa propensione al concettismo cui Raboni, in specie nella forma elisabettiana del sonetto, non appare come si è visto estraneo), il «vertiginoso, lussuoso panmanierismo (Petrarca e Góngora, Donne e Marino) della Terra promessa» di Ungaretti104 (cui appaiare, se mai come contravveleno, la «strana fragranza» prosastica, in realtà radiofonica, del Monologhetto)105, non a caso segnalato in un intervento del 1979 (alla vigilia dunque di Canzonette mortali) alla base della tendenza genericamente «amontaliana» dei poeti dei tardi anni Settanta106. In seconda battuta va segnalata quella «vera e propria gesticolazione sonora» che condurrà Caproni a percorrere sia misure «a base endecasillabica e con prevalenza della forma sonetto» (e proprio, per sua esplicita ammissione, per risarcire il trauma della guerra) 107, sia a dare voce, in un «ritmo ansioso e turbinoso apparentemente cantabile in realtà pieno di sottili inceppamenti, décalages, dissonanze», a «una sorta di strascicata e trascinante dolcezza nevrotica»108 (alla cui coazione melica anche il sonetto minore di Raboni parrebbe dovere qualcosa). Su questo stesso piano va posta senz’altro la progressiva riemersione (parallela a una sempre più spinta rivalutazione critica) di Fortini nelle strategie formali raboniane109, autore che viene non a caso definito, nel saggio per la Letteratura italiana di Sapegno, «una chiave di volta e una sorta di passaggio segreto» della poesia italiana del secondo Novecento110, sia per il valore testimoniale da lui esplicitamente assegnato alla sua opera, a sua volta pervasa dal trauma bellico 111111], sia per la sua capacità di ripensare in una «vivissima lingua morta»112 le forme della tradizione, sia per la sua scoperta «futurità»113, sia infine per quella frequentazione di taluni temi «milanesi» (a partire dal «tema del cortile» segnalato dallo stesso Fortini) che Mengaldo nel 1980, e giusto prendendo spunto da Raboni, considerava comune (con le necessarie «differenze individuali») a Fortini e al «suo difficile compagno di strada» Sereni114.
Su un terzo livello vanno poste le uniche due modalità di ripensamento delle forme di tradizione alle quali Raboni non sembrerebbe attribuire futuro, o perché ritenute troppo intenzionalmente dichiarative (e legate dunque a una sermocinatio contingente) o in quanto esplicitamente mimetico-parodiche. Potrà apparire strano, e certo la circostanza farà sobbalzare più di un critico, ma Raboni sembra reperire un comune fondo «raziocinante»115 da un lato nella «trascrizione convulsa di un remoto decoro metrico-sintattico» in cui si riverbera uno dei tanti aspetti dell’«antinovecentismo stilistico» di Pasolini116116], dall’altro nel «recupero comico-virtuosistico delle forme metriche tradizionali» di Sanguineti117, siano esse piegate a una divertita sonetteria d’occasione, acrostica e «bisticciata»118, e talvolta burchiellesca o leporeambica, o sospinte piuttosto alla «novissima» rifondazione dell’ottava, «usata come efficace contenitore e segnatempo di un flusso […] di reperti e frantumi discorsivi, debitamente bruciacchiati e corrosi da una nera malinconia»119. Dal lato opposto, si potrebbe dire, lì dove la materia dismisurata dell’io (vitalistico o parodico) diviene, materialisticamente, antimateria, e dove l’ambiguità, invece di essere razionalizzata, «regna al più alto grado» come «immagine […] ambigua dell’ambiguità», Raboni poneva la parabola complessiva di Zanzotto120 che, se sarebbe quasi immediatamente dopo la pseudotrilogia trascorsa nella disintegrazione, per dirla con Niva Lorenzini, del «codice istituzionalizzato» fra «soprassalti di una registrazione dell’instabile» e «frequenze disturbate» 121, era comunque giunta, all’altezza di Galateo in Bosco (1978), non solo al «calcolatissimo squilibrio» fra «una metrica aperta e quasi indifferente, percussiva, volutamente slabbrata, un po’ alla Soffici», e «la feticistica e quasi terroristica riproposta di una forma per eccellenza chiusa e violentemente regolamentata come il sonetto, nella variante davvero iperbolica, oltre tutto, dell’ipersonetto», ma soprattutto «alla misura del Libro, inteso non già come contenitore o raccolta, ma proprio come organismo insezionabile», capace dunque di sottrarsi, nella sua compattezza testuale, «a ogni campionatura per frammenti o, peggio, per singole riuscite di “poesia pura”» 122.
Appare allora evidente che ciò che colpì per tempo123 Raboni dell’esperimento zanzottiano non fu tanto l’«iperbolico» congegno preso nel suo sdegnoso isolamento, ma la forza straordinariamente unitiva del «Libro» (con il suo sapore acido e dolciastro di fermentazione georgica), capace non già di sciogliere le incrostazioni parodiche dall’uso sfacciatamente manieroso della forma, ma di stagliarle piuttosto come grumi tragicomici (più che ironici) di persistenza dell’istituzione letteraria (da galateo, per l’appunto) nella materialità scomposta e prepotente non solo della vita e del suo sopraffarsi (nelle sue forze reciprocamente infestanti) ma delle violenze ripetute della storia (strato su strato, si potrebbe dire, sicché alla ferita bellica inferta al bosco, e sùbito rinaturata in concime negli ossari, si aggiungono ora le «ville per weekendisti», al cui kitsch il sonetto scopertamente rimanda). Se il ritorno alla forma (proprio quella del sonetto), e alla sua immediata serializzazione, svolge al dunque funzione di collante, lavorando a suo modo (con materiali di risulta, si potrebbe dire) per l’architettura di una forma ulteriore, quella del «Libro» cui diviene impossibile far saltare schegge di «poesia pura», si può comprendere allora a pieno quanto sia risultato importante, per le strategie formali e per la progressiva evoluzione della forma-raccolta in Raboni, l’incontro con Patrizia Valduga, e con il suo reimpiego delle intelaiature metriche (a partire anche questa volta dal sonetto) come «teatro, recinto, polveroso e cruento luogo deputato di un rischio personale e magari mortale, di un accanito corpo a corpo con i fermenti e i fantasmi della propria immaginazione»124. Anzi, a ben vedere, e contro un diffuso pregiudizio critico che non prevede se non con fastidio l’influsso di poeti più giovani su quelli più anziani125 (ma, naturalmente, i più di vent’anni di vita in comune semplificano, e su un ulteriore livello complicano, il disbrigo della matassa dei reciproci influssi), si può senz’altro affermare che proprio da Patrizia Valduga (destinataria delle Canzonette mortali e «tu» ideale dei Versi guerrieri e amorosi e di quanto ne seguì) sarebbero giunti gli stimoli decisivi che avrebbero indotto Raboni a riarmonizzare le misure e le forme della tradizione per rendere «organismi insezionabili» le proprie raccolte.
Se dunque una sorta di linea «amontaliana» collega da un lato il «vertiginoso panmanierismo» del tardo Ungaretti alla «feticistica e terroristica ripoposizione del sonetto» di Zanzotto (e magari alle «macchinazioni metrico-metaforiche» di Scialoja) 126, e dall’altro la «spontaneità melodica e profondità tematica» di Saba127 alla «vivissima lingua morta» della «futurità» di Fortini (e alla «storia formale», che suona spietata come una «vicenda biologica», di Betocchi)128, incrociandosi se mai nel flusso (quello «irto, stipato, angoloso» ed endecasillabico) e nel deflusso (per così dire «melico») della poesia caproniana (e nei rivoli delle costanti allusioni alla forma di Giudici) 129, occorre dire che tale corrente sotterranea incontra quella che Raboni, a partire dalla svolta della metà degli anni ‘60 di Luzi e Sereni, aveva riconosciuto procedere pienamente in superficie (verso un «imprevisto scartare in direzione dell’orizzontalità della prosa») esattamente nel ripensamento (sul narrare, si potrebbe dire) della forma-raccolta. La conclamata serialità della successiva produzione di Patrizia Valduga (sospesa sempre fra «poema o racconto o dialogo»130) e le raccolte raboniane che si sono precedentemente analizzate procedono dunque di pari passo, pur nella diversità della lavorazione della forma e delle elezioni tematiche, esattamente in questa direzione, quella che prevede un’investitura più che narrativa drammaturgica (da piccolo teatro da camera) della forma-raccolta.
Da questo punto di vista, l’elezione del sonetto e la sua immediata seriazione in Ogni terzo pensiero e Quare tristis (ma anche le composte strutture di Versi guerrieri e amorosi e il défilé di imparisillabi sciolti, o selve, di Barlumi di storia) occorrono, esattamente come le quartine delle due serie di centurie o i madrigali di Lezioni d’amore (2004) di Patrizia Valduga, a mettere in scena le modalità stesse di ricezione (si tratta in realtà di riorganizzare la «ricevitoria» di ciascun lettore) della forma-raccolta, e delle sue tessere, come necessario rallentamento del flusso di «alcune parole» (isolate come principio irritativo)131 in un congegno di pensiero. Come notava Paul Valéry in una sua annotazione del 1943, rispetto alla pur vantaggiosa «hâte mentale» (e alla sua eco verbale), la «signification poétique» non può che essere soggetta «à un parler qui a sa vitesse chargée des temps, obstacles et intensités», così che la forma non risulta essere altro che l’esigenza di quel «pas à pas», «mot à mot», con cui il pensiero (e il parassita paroliere), esattamente lì dove inceppa, s’incarna132. D’altra parte, se il raccontare della narrativa (quanto meno di quella più irresponsabilmente all’ordine del giorno) trascorre alla velocità dell’instabilità del pensiero, ingiungendo a ripensare il ripensato, e l’autoreferenzialità della poesia che è in quanto tale riconduce sempre a rimasticare la pasta, intima misterica o sobbollente fa lo stesso, di un impensabile io pensante, sarà proprio della drammaturgia del narrare poetico rallentare il flusso e predisporre ciascuno, e ciascuno con le proprie modalità, a pensare l’impensato. La perseguita indistizione fra i generi (versi che defluiscono, prosa che respira o… monologhetto?) consente allora alle forme ancipiti raboniane di sortire dall’autorialità perentoria (e narcotica) del romanziere e del poeta, se non altro per quanto di performativo, contuitivo, contengono le forme nel loro assolversi, riceversi, risciogliersi e garantire così, nello spazio vuoto intorno a cui si moltiplicano, l’intercambiabilità del ruolo, la non-identificazione, l’evenire di un pensiero nel farsi, «passo per passo», «parola per parola», di un congegno conversevole, sia pure esso il sempre vivificabile, perché mortificabile, e concettoso, sonetto supposto sapere.

1Su «Il Messaggero» del 9 marzo 1982, col titolo Aggiustamenti progressivi della vita (l’edizione definitiva di Stella variabile, dopo l’anticipo offerto ai Cento Amici del Libro nel 1979, era apparsa per Garzanti, datata però 1981, nel febbraio di quell’anno). Si legge ora in Giovanni Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano. 1959-2004, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, alle pagine 177-180. Si rimanderà d’ora in poi a questo volume con la sigla PSF.
2Il riferimento è, naturalmente, a Michel Foucault, Les mots et les choses, 1966 [trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 17-18].
3G. Raboni, Aggiustamenti progressivi della vita, cit., p. 177.
4Ivi, p. 180.
5Ivi, p. 179.
6E tale, come spesso càpita in queste correnti intellettuali e affettive che legano, in sede critica, un autore più giovane a un venerato analizzato più anziano, da prefigurare gli esiti dell’analizzante, più che perimetrare il luogo liminare in cui si riconosce e saluta il maestro, il modello, l’amico. La circostanza è persino evidente: quanto è stato fin qui riportato delle considerazioni del più giovane critico su Stella variabile, si attaglia con una puntuale precisione, magari persino si caletta (come se l’incavo, insomma, fosse per davvero già pronto, e lasciato in attesa), al materialismo rasciugato delle ultime raccolte raboniane, quanto meno a partire dall’ultima sezione di Versi guerrieri e amorosi.
7G. Raboni, La poesia che si fa, «Approdo letterario» 22, aprile-giugno 1963, poi in Id., Poesia degli anni sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 85-89.
8Harald Weinrich, Le style et la mémoire, 1994 [trad. it. di D. Giglioli, Lo stile e la memoria, in H. Weinrich, Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, Milano, La Nuova Italia, 1999, p. 154.
9Ribadendo nel 1991 la sua ammirazione per il lavoro poetico di Toti Scialoja, «uno dei pochi maestri che un poeta possa oggi ammettere e augurarsi d’avere fra i suoi contemporanei», Raboni chiariva una volta per tutte con forza il senso processuale da lui costantemente attribuito al fare poetico: «La poesia non esiste in natura ma si costituisce sillaba per sillaba spremendo necessità dal gioco e libertà dalla costrizione, cavando una parola dall’altra e ribadendo una parola dentro l’altra sino a fare immagine di ogni suono e invenzione di ogni vincolo imposto o subito» (G. Raboni, Il senso perso dei versi, «Corriere della Sera», 14 luglio 1991, ora in PSF, p. 365).
10Andrea Cortellessa, La poesia in carne e ossa, in PSF, cit., p. 404.
11M. Foucault, Les mots et les choses, cit., p. 19.
12Alain Badiou, Court traité d’ontologie transitoire, Paris, Seuil, 1998, rispettivamente alle pp. 32 e 57.
13Companionable definiva il suo procedimento inclusivo del lettore (da teatro da camera, o home theatre), l’ultimo Beckett, quello della cosiddetta «seconda trilogia» in prosa (scritta fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta). Si veda, per il funzionamento di tali strategie contuitive, Gabriele Frasca, In nessuna lingua ancora, in Samuel Beckett, In nessun modo ancora, Torino, Einaudi, 2006.
14«Le macchine desideranti […] non cessano di guastarsi funzionando, non funzionano che guaste: del produrre si innesta sempre sul prodotto, e i pezzi della macchina sono altresì il suo combustibile. L’arte utilizza spesso questa proprietà creando veri e propri fantasmi di gruppo che […] introducono una funzione di guasto nella riproduzione di macchine tecniche» (Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’Anti-Œdipe, 1972 [trad. it. di A. Fontana, L’anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1975, p. 34]).
15Gilles Deleuze, Pensée nomade, 1973, in Id., L’île déserte et autres textes. Textes et entretiens 1953-1974, a cura di D. Lapoujade, Paris, Minuit, 2002.
16Pier Vincenzo Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 107-111.
17G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, 1991 [trad. it. di A. De Lorenzis, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 1996, p. 188].
18G. Raboni, Parole, ritmi e immagini per costruire mondi, «Corriere della Sera», 3 febbraio 2004 (ora riprodotto parzialmente come Premessa in PSF, p. 5).
19A. Cortellessa, La poesia in carne e ossa, cit., p. 404.
20Cortellessa cita a questo proposito un intervento di Raboni sul «Messaggero» dell’11 giugno 1986: «È difficile, lo so, ammettere che i poeti importanti possano essere così numerosi. È talmente più facile e rassicurante credere agli assetti piramidali, e immaginare che il lavoro poetico di un secolo confluisca in uno o due autori “esemplari”, conoscendo l’opera dei quali si può sentir battere il polso di un’epoca, si può possederne tutto il significato!» (ivi).
21Dalla cui Introduzione varrà la pena estrapolare, e mettere in risonanza con la nota precedente (ma volgendo opportunamente in positivo quello che nel negativo risentiva ancora dell’emulsione crociana), questo periodo così esemplarmente consonante: «Il quadro di questi lirici marinisti non ci propone in realtà nessuna grande figura di creatore […]: esso ci offre invece una schiera di sperimentatori, di inquieti analizzatori, che contano non tanto per quei momenti isolati di poesia che realizzano, quanto piuttosto per la loro generale esperienza, per i loro tentativi di rinnovare il gusto poetico» (Giovanni Getto, Introduzione in Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti. II. I Marinisti, a cura di G. Getto, Torino, UTET, 1962, p. 73; si legge ora anche in G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, a cura di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 89).
22Con un’idea di molteplice che non nasconde l’avversione a quel cipiglio unitivo che fa tassonomie, mentre tende a desalare ogni dato sensibile. «Per quasi mezzo secolo, dunque, Raboni è stato convinto che “la poesia, in sé, non esiste” – se non, beninteso, di volta in volta “nelle parole dei poeti“. Non “La Poesia”, dunque, “questa ineffabile e del tutto inservibile astrazione” […] che – a idealismo da un pezzo, teoricamente, passato in predicato – continua ancor oggi a riempire la bocca a rètori di tutte le risme. Semmai “le poesie”. Pochi uomini del Novecento hanno avuto antenne paragonabili alle sue, quando si trattava di andarle a trovare dov’erano: le poesie» (A. Cortellessa, La poesia in carne e ossa, cit., p. 385).
23Che Satura, in virtù della «perseguita e raggiunta unificazione del mezzo vocale a un livello lessicale e metrico fortemente diminuito», tendesse a una «straordinaria compattezza timbrica» in grado di fare della raccolta «un piccolo romanzo», Raboni non esitava certo a segnalarlo, né in qualche modo a rallegrarsene (non era del resto, per lui, all’epoca, quell’andare verso la prosa, anzi «quell’andarsene coi lunghi passi della prosa», per dirla con l’amato Betocchi, la «chiave di volta» del secondo Novecento, così com’era stata incardinata nelle raccolte Nel magma di Luzi e Gli strumenti umani di Sereni?) Che però tale «perseguita e raggiunta unificazione» risultasse tutta a scapito del poeta che evidentemente (a seguirne il tono risentito) più di tutti aveva amato (quello delle Occasioni), e sotto l’egida invece dell’elzivirista dalla «sentenziosità “chiara”, futilmente reazionaria, volutamente futile e reazionaria», e «non di rado stridula o stonata in termini di formulazione espressiva», Raboni non riusciva a nasconderlo, né a se stesso (e alla sua precedente ammirazione) né ai sùbito scandalizzati, e tanti e cattedratici, montaliani di partito. Ma per Raboni, come si avrà modo di vedere, la poesia che si fa non ammette défaillance; è una parabola che riguarda tutt’intera la produzione di un «poeta» (cioè la sua funzione poeta, non il suo essere poeta). Sicché la traiettoria di questa funzione, e a maggior ragione il suo punto d’arrivo, può illuminare, oppure oscurare, l’intero percorso. Né, a onor del vero, si può con leggerezza affermare che Montale, o il «nuovo poeta» che era alla fin fine diventato (per dirla ancora con Raboni), abbia in séguito fatto chissà cosa per smentirlo. (Le citazioni incriminate rimandano a G. Raboni, L’altro Montale, «Paragone-Letteratura», 256, giugno 1971, ora in PSF, pp. 59-61).
24Ivi, p. 62.
25Che le posizioni estetiche di Raboni, disseminate nella sua produzione saggistica ed esposte lucidamente nello scritto su Montale del 1971, consuonino con la teoria estetica di Deleuze e Guattari, appare evidente se si confronta quella pagina riportata con questa tratta da Qu’est-ce que la philosophie?: «La fabulazione creativa non ha niente a che vedere con un ricordo, per quanto amplificato, né con un fantasma. Infatti l’artista, compreso il romanziere, eccede gli stati percettivi e i passaggi affettivi del vissuto. In che modo potrebbe raccontare ciò che gli è successo o ciò che immagina, visto che è un’ombra? Ha visto nella vita qualcosa di troppo grande, magari di troppo intollerabile, le angustie della vita e ciò che la minaccia; di conseguenza, lo scorcio di natura che egli percepisce, o i quartieri della città e i loro personaggi si conformano a una visione che compone attraverso di loro i percetti di quella vita, di quel momento, facendo esplodere le percezioni vissute in una sorta di cubismo, di simultaneismo, di luce cruda o di crepuscolo, di porpora o di blu, che non hanno più altro oggetto o soggetto che se stessi. “Si chiamano stili”, diceva Giacometti, “queste visioni arrestate nel tempo e nello spazio”. Si tratta sempre di liberare la vita là dove è prigioniera, o almeno di provarci, in un combattimento incerto» (G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, cit., p. 176).
26A. Badiou, Le Siècle, Paris, Seuil, 2005, p. 185.
27G. Raboni, Modernità di Rèbora, in Clemente Rèbora, numero monografico di «Psychopathologia», a cura di E. Ermentini e G. Oldani, 1985, ora in PSF, p. 27.
28Certo Montale, cui Raboni (ma, va ribadito, è segno di una delusione d’amore), parrebbe proprio non perdonare niente; ma anche, e più contraddittoriamente, Ungaretti, cui si rimprovera, e proprio nello stesso anno in cui si regolano i conti con Montale (il 1971, lo si sarà capito, è un anno cruciale, non a caso coincidente con le fasi conclusive di Cadenza d’inganno, per la rimessa in questione politica del concetto stesso di poesia), non solo di avere offerto «alibi metrici» (da buon «poeta-maestro», «poeta-allenatore») allo sciocchezzaio poetico del Bel Paese, ma anche (e forse soprattutto) l’aver abbandonato assai per tempo «qualsiasi atteggiamento o intenzione di natura “avanguardistica”», così da far rimpiangere «che le proposte metrico-linguistiche presenti nell’Allegria, con il loro preannuncio di quasi weberniano puntilismo e il loro recupero fonetico-figurativo del “parlato”, non siano state approfondite dal poeta con il rigore e l’audacia che meritavano, ma siano state ben presto degradate a semplici materiali per la realizzazione di un progetto sostanzialmente restaurativo, per un ritorno all’ordine ­– splendidamente decoroso e sempre vantaggiosamente frequentabile – del passato» (G. Raboni, L’attesa di senso, «Paragone-Letteratura, 254, aprile 1971, ora in PSF, p. 48; le precedenti citazioni si trovano invece a p. 46).Ma magari l’accento, al momento, andrà posto su quel «sempre vantaggiosamente frequentabile» che non mancherà, stemperando non poco il «restaurativo» del «progetto», con l’essere per l’appunto frequentato.
29Da cui la doppia lettura della «funzione spartiacque» di Montale segnalata da Raboni in un intervento del 1981, che racconta nella sua interezza la storia d’amore, diciamo così, e la sua delusione. Per amore, difatti, si può continuare ad affermare che «è a Montale, al poeta delle Occasioni, che dobbiamo se la poesia italiana dell’ultimo mezzo secolo è stata, nel suo insieme, una poesia non evasiva, non impressionistica, non evaporata né evaporante, ma una poesia ricca di pensiero e di senso, sostanzialmente laica e “civile” pur nel suo frequente, o addirittura generalizzato, rifiuto dell’esistente». La delusione, però, serpeggia nella constatazione, in cui sembrerebbe trapelare un oscuro sospetto, di un singolare “tempismo“. Di quale altro poeta, si domanda Raboni, si potrebbe dire che è giunto come un taglio, dividendo un prima e un dopo? «Di nessun altro, credo; e non è tanto, si badi, una questione di “grandezza”, quanto una questione di fulminea messa a fuoco, e di perentoria tempestività dell’entrata in scena. La straordinaria fusione di esattezza gnomica e di densità lirica accertabile nella poesia di Montale a partire dalla Casa dei doganieri (1932) e in piena, complessiva evidenza nelle Occasioni (1939) scatta come un congegno perfettamente tarato e oliato, come un’efficientissima trappola, a dettar legge, a decidere ciò che da quel momento in poi, nel linguaggio della poesia, è attuale o invece attardato, inserito nella corrente o tenacemente, magari preziosamente, nostalgico» (G. Raboni, Prima e dopo Montale, «Rinascita», 18 settembre 1981, ora in PSF, rispettivamente alle pp. 54-55 e 52).
30P. V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, cit., pp. 109.
31A. Cortellessa, La poesia in carne e ossa, cit., pp. 394-395.
32G. Raboni, Prefazione a Toti Scialoja, Poesie 1961-1998, Milano, Garzanti, 2002, ora in PSF, pp. 363-364.
33Sempre a proposito di Scialoja, ma in sede di recensione, Raboni avrebbe definito tale tensione una «fatale conversione alla pienezza di se stessi di cui solo i veri artisti sono ostinatamente capaci» (G. Raboni, Il senso perso dei versi, «Corriere della Sera», 14 luglio 1991, ora in PSF, p. 365). «Come si diventa ciò che si è» è il sottotitolo, opportunamente genealogico, dell’Ecce homo di Nietzsche.
34Ivi, pp. 364-365.
35G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, in Storia delle Letteratura Italiana diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, nuova edizione a cura di N. Sapegno, vol. VII, Il Novecento, tomo II, Milano, Garzanti, 1986, ora in PSF, p. 192.
36Ivi, pp. 190-191: «La seconda guerra mondiale, con le sue forzate scoperte nell’ordine dello sgomento e dell’orrore ma anche, insieme, in quello della responsabilità etica, ha segnato oppure no, nelle vicende della poesia italiana del Novecento, una rottura, uno scarto decisivo? Se dovessi scegliere, senza possibilità di distinzioni e sfumature, fra una risposta affermativa e una negativa, credo che opterei per la seconda. Alla prova dei fatti, cioè dei risultati testuali, le ragioni della continuità sono risultate più forti della spinta al ricominciamento, o addirittura al ripudio, manifestatasi negli anni immediatamente successivi al ‘45 come parte di un vasto progetto o, per essere più esatti, di una vasta utopia di rifondazione dell’intera tavola dei valori, che interessò allora, come tutti ricordiamo, la società e la cultura italiana». Esaminata, dunque, la «posizione di ribellione» insita in quella poesia che «si definì o fu definita neorealista», ben presto collassata su se stessa, nonché l’«antinovecentismo» del gruppo di Officina (Pasolini in testa, con il suo «recupero sperimentale di forme e modi pre-ermetici, o addirittura pre-simbolisti»), Raboni nel ripercorrere un quarantennio di storia letteraria riconosceva sì che nel farsi della poesia italiana postbellica occorreva «privilegiare l’immagine della continuità rispetto a quella della rottura», ma solo per introdurre, per l’appunto, un’altra «immagine», quella «intermedia della modificazione», in grado di assumere responsabilmente su se stessa le consegne di una memoria mai redenta (che «non si sfama», e che non sfama mai). Né a caso, seguitando ancora le ragioni esposte nel saggio, tale poesia mostrava di avere «il suo punto iniziale e centrale di irradiazione» proprio «nel lavoro di poeti la cui vicenda è stata attraversata, e divisa in un prima e in un dopo, dall’esperienza traumatica della guerra» (ivi, p. 192; ma si veda anche l’articolo apparso per il «Corriere della Sera» dell’11 marzo del 1990, col titolo Le parole che abbiamo attraversato, riportato nella raccolta alle pagine immediatamente precedenti).Diciamo allora che, non tanto la guerra, ma l’ansia di occultarla, o di coprire le tracce della sua sopravvivenza, così imbarazzante anche in alcuni di questi poeti, e così sbarazzina in altri più giovani e propulsivi, e magari proprio negli anni in cui quello stesso evento gli andava riemergendo nel farsi stesso del suo lavoro poetico, divenne a poco a poco per Raboni la cartina di tornasole, in negativo, di quanto di futile e fatuo, borbottato magari o fra strepiti, serpeggia sia fra i sempre più pallidi replicanti della «norma» novecentesca, sia fra i più sanguigni coatti all’«anti-norma» (al solito, comunque, primonovecentesca).
37G. Raboni, Il respiro del pensiero, in Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, a cura di S. Mecatti, Firenze, Vallecchi, 1989, ora in PSF, p. 112.
38E si tratta di un percorso non già verso la prosa, come si sarà capito dall’esplicita chiamata in causa del «respiro prosodico» cui essa finirebbe col soggiacere, quanto nella direzione di una progressiva e vitale indistinzione fra i generi, esemplificato in buona sostanza nelle fasi del lavoro poetico di Luzi e di Sereni, e fatto ruotare intorno alle date di apparizione di Nel magma (1963, e poi ‘64 e ‘66) e Strumenti umani (1965) ­ – i «rapporti trasversali, e del tutto spontanei» fra queste due raccolte costituiranno sempre, nel canone plurale raboniano, «una delle chiavi di volta, e di senso, della poesia del secondo Novecento» (G. Raboni, Nelle poesie di Luzi la Commedia del ‘900, «Corriere della Sera», 24 novembre 1998, or in PSF, p. 105). A tali date, però, un po’ per volta si aggiungerà (magari proprio per affiancare a quel percorso una via diversa, se non di uscita) il 1968 de La Beltà di Zanzotto, quando la «stagione» a metà degli anni Sessanta verrà definita, proprio triangolando col poeta di Pieve di Soligo la coppia sempre riproposta, «probabilmente irripetibile, segnata dalla comparsa di […] libri decisivi» (G. Raboni, La vita in versi tra etica e natura, «Corriere della Sera», 8 novembre 2000, ora in PSF, p. 318).
39G. Raboni, Prefazione a C. Betocchi, Tutte le poesie, cit., p. 78.
40G. Raboni, Dissanguamento e altre metafore nella poesia di Bertolucci, «Paragone-Letteratura», 262, dicembre 1971, ora in PSF, p. 100.
41G. Raboni, Introduzione a Nelo Risi, Poesie scelte (1943-1975), Milano, Mondadori, 1977, ora in PSF, p. 274.
42G. Raboni, Introduzione a Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, a cura di V. Leotta e G. Raboni, Milano, Mondadori, 1990, ora in PSF, p. 281.
43G. Raboni, Antonio Porta, l’ansia di sperimentare, «Corriere della Sera», 16 giugno 1989, ora in PSF, p. 344.
44G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 248.
45G. Raboni, Essere per essere, «Il Messaggero», 27 marzo 1984, ora in PSF, p. 101.
46Maria Antonietta Grignani, Interlocutori dell’ultimo Sereni, «Testo», 49, gennaio-giugno 2005, pp. 83-84: «… Il cantiere di Sereni tra gli Strumenti umani e Stella variabile mette sullo stesso piano, concettuale e di lavoro formale, poesia e prosa, non nel senso semplicistico di una poesia che va verso la prosa, ma in quello di un nesso tra scrittura in versi e scrittura in prosa, che arricchisce la seconda di pulsioni verticali e la prima di narratività e di intrecci di voci. Proprio per quest’ultima caratteristica credo fermamente che la via d’uscita, in questa direzione di commiato dai grandi del pieno Novecento italiano, sia stata per Sereni la messa a punto di una struttura del dialogo e dell’interdiscorsività». Ma si veda anche, tempestiva messa a giorno dell’intera questione, M. A. Grignani, Le sponde della prosa di Sereni, «Poliorama», 2, dicembre 1983, pp. 121-144.
47G. Raboni, Essere per essere, cit., p. 101.
48M. A. Grignani, Interlocutori dell’ultimo Sereni, cit., p. 85.
49G. Raboni, Essere per essere, cit., p. 101.
50«Ristabilire l’esatta cronologia delle numerose stratificazioni e riprese dei testi sabiani è un’impresa tanto ardua quanto affascinante; Saba era uno stupendo mistificatore, ingannava tutti (a cominciare da se stesso) postdatando e retrodatando stesure e varianti, convinto com’era che risalire alla versione “originaria” di una poesia non significasse ritrovare il manoscritto dell’epoca, ma riscrivere la poesia così come avrebbe potuto, o dovuto, essere scritta allora…» (G. Raboni, Nella poesia di Saba c’è un mistero: la trasparenza, «Tuttolibri. Supplemento a “La Stampa”», 5 marzo 1983, ore in PSF, p. 12).
51Sui cui estremi si potrebbero mettere, al momento, da un lato la «sindrome da Vaticano 3195», con annesso défilé (e compiacimento) filologico, di cui fin dal suo nascere fu affetta la Vita di un uomo ungarettiana (divenuta ben presto la princeps, e il tormentone-tipo, e alla fin fine il processo omologante, di tutti i Meridiani mondadoriani), e dall’altro il progetto seriale sanguinetiano di poema in fieri, aggiornato con la puntualità di un diario di bordo che conduce, senza soluzione di continuità, dall’iniziale sobbollimento della palude linguistica (e del sociale perverso che rappresenta) al successivo divertito (o immalinconito) girovagarvi à la Gozzano malgré Pound.
52Mario Lavagetto, Introduzione a Umberto Saba, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1988, p. XIX.
53Per tale concetto, si veda G. Frasca, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Genova, Costa & Nolan, 1996, pp. 22-23 e nota.
54G. Raboni, Rèbora e il Novecento, in Clemente Rèbora nella cultura italiana ed europea, atti del convegno di Rovereto, 3-5 ottobre 1991, a cura di G. Beschin, G. De Santi, E. Grandesso, Roma, Editori Riuniti, 1993, ora in PSF, p. 30. Tale intreccio «apparentemente mostruoso» avrebbe fornito, secondo Raboni, «l’habitat naturale e lo sfondo ideologico sia ai sublimi balbettii e alle “evocazioni pure” di Ungaretti sia ai “flatus voci” e agli enigmi araldici del miglior Montale» (ivi, pp. 30-31).
55Anche in Rèbora, come ha giustamente notato Paolo Giovannetti a proposito dei suoi «anamorfismi metrici», «le istanze discorsive fanno premio sulle illuminazioni locali», trasformando i suoi «frammenti» in «autentici poemetti narrativi, entro i quali ogni soluzione metrica e stilistica», piuttosto che liberare «la pronuncia della parola, degustata nei suoi iati vocalici e dilatata in modo artificioso» (secondo una «spiegazione vagamente “ungarettiana”»), assume «un valore relazionale, cioè a dire sintagmatico» (Paolo Giovannetti, Metrica del verso libero italiano, Milano, Marcos y Marcos, 1994, p. 134).
56Si pensi, per limitarsi a pochi esempi, alla tensione all’endecasillabo e all’alessandrino (strutture versali ricercate, truccate, evocate ed eluse) presente in un testo capitale di Cadenza d’inganno, L’alibi del morto (per cui si veda Concetta Di Franza, La poesia di Giovanni Raboni tra Economia della paura e «strategia della tensione»: impegno civile e politico in Cadenza d’inganno, «Filologia & critica», XXIX 3, settembre-dicembre 2004, pp. 391-408). O alla sequenza endecasillabica appena mascherata in 19** di Le case della Vetra, che mette a giorno, neanche a dirlo, un sonetto (a rime, e assonanze, libere ma comunque ossessive). Endecasillabi senz’altro sono difatti i vv. 2, 5, 7, 8, 9, 10, 12 e 14, ma endecasillabo potrebbe a sua volta essere il verso incipitario (altrimenti novenario): cui bastano per l’appunto due dialefi, legittime fra l’altro se si vuol dare la dovuta gravità all’ingiunzione a discutere su quanto sta avvenendo in quel frangente nell’America del senatore McCarthy, come onda lunga di quanto è già avvenuto, e continuerà ad avvenire per tutto il millenovecento: «Certo, |è| il momento di parlare»). Ma anche i vv. 11 e 13 sono senza troppi lambiccamenti riconducibili alla misura del nostro verso principe, dal momento che la loro apparenza dodecasillabica si risolve facilmente con una sinalefe transversale (null’altro che la sinafia volgarizzata da Pascoli): «al baritono negro allo scienzia to / ebreo per parte di madre, niente fiori / sulle fosse o rimproveri sgarba ti / agli aguzzini. Quando più te l’aspetti | torna a tirare un’aria di cappucci» (vv. 10-14). Ampliando lo spettro di questo stesso principio transversale (si ricordi lo studio sul cosiddetto «overlapping metrico» dell’enedecasillabo leopardiano in Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 169-181) si possono ricondurre alla stessa misura anche i vv. 3 e 4 [«con tutti (perfino con gli amici) attenti / a non far mai la stessa strada»], apparentemente un dodecasillabo e un novenario (da ricomporre insomma, con l’opportuna dialefe scopertamente ironica: «con tutti (perfino con gli | amici / attenti a non far mai la stessa strada»). Resta dunque il solo v. 6 («stracciati, indirizzi di streghe. E il tempo aiuta»), tridecasillabico se lo si prende nel suo isolamento (magari come il ricostruito verso indoeuropeo), o più complessamente armonizzato, in virtù degli accavallamenti col verso precedente [«e non lasciare in giro taccuini»], e con quelli successivi [«eh? non è vero? (Anche troppo.) Ma se uno / è appena astuto, sa che non bisogna / lasciarsi andare…»], in una sequenza di settenari (con coazione all’alessandrino, e chiusa da un endecasillabo) che parrebbe sottostare, alternativa (e sintatticamente pausata), alla stessa misura endecasillabica: «e non lasciare in giro / taccuini stracciati / indirizzi di streghe. / E il tempo aiuta | eh? / non è vero? (Anche troppo.) / Ma se uno è appena astuto, / sa che non bisogna lasciarsi andare»).La tensione al settenario (e alessandrino) sommerso (cioè transversale e sintattico), con chiusa endecasillabica, d’altra parte, parrebbe riguardare vaste aree dell’intera produzione raboniana; si pensi, per fare un esempio successivo alla più esplicita svolta metrica, all’incipit de La guerra, poesia tratta dalle Ultime (1983-1987) murate nella raccolta antologica A tanto caro sangue: «Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani, / quasi: le dita specialmente, le unghie, / curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie / senza il marrone della nicotina» (che facilmente si riconfigura in: «Ho gli anni di mio padre / ho le sua mani, quasi: / le dita specialmente, / le unghie, curve e un po’ spesse, / lunate (ma le mie / senza il marrone della nicotina»).
57«Il sonetto», dichiarava in un’intervista rilasciata a Guido Mazzoni nel 1997, «è diventato il modo in cui oggi penso la poesia. D’altra parte, quasi contemporaneamente ho cominciato a lavorare contro il sonetto. I miei sonetti rispettano lo schema ma allo stesso tempo cercano di disfarlo, di metterlo in discussione, per esempio con un gioco di accenti, di rime sulle particelle e sulle congiunzioni» (G. Raboni, Classicismo e sperimentalismo contro la perdita di significato, «Allegoria», 25 (1997), a cura di G. Mazzoni, pp. 141-142).
58Sulla base dell’antologia pubblicata da Ansceschi nel 1952, «comprendente, accanto a Vittorio Sereni, alcuni poeti della generazione del ‘45», si era poi andata, a detta dello stesso Raboni, «consolidando, e al tempo stesso sfumando per eccesso di aggregazioni, l’immagine di una lombradità in poesia fatta da un lato di attenzione alle cose, al paesaggio, a una quotidianità dimessa e pungente, e di una vocazione morale […] che ha i suoi antecedenti […] in Parini e in Manzoni e un riferimento più recente, sostanzioso e quasi segreto in Clemente Rèbora; dall’altro lato di una pronuncia in sottile e sempre affabile equilibrio fra tenerezza elegiaca e ironia, fra precisione e understatement» (G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 200).
59Ivi, pp. 200-201: «Non si tratta, è ovvio, di una formula critica stringente: tant’è vero che di linea lombarda e poi, con intenzione necessariamente più vaga e inclusiva, di area lombarda, si è potuto parlare (e non a sproposito) anche per poeti che lombardi non erano se non di adozione oppure, via via, per poeti di età e formazione nettamente successive, sino all’autore di queste pagine, o a Tiziano Rossi, o addirittura a un esponente della generazione del ‘68 come Maurizio Cucchi».
60Scegliendo qualche nome un po’ a caso, per chiarire sùbito di come si trattasse di un insieme assolutamente variegato, Raboni comprendeva nella «generazione del ‘56»: Amelia Rosselli, Sanesi, Sanguineti, Alda Merini, Balestrini, Bandini, Loi, Porta, Zeichen, Ramat, Jolanda Insana, Scalise, Ortesta…
61Ivi, p. 226. Con un puntuale intervento del 1961, Raboni aveva del resto definito «centrista» la «provocazione» dei Novissimi, per quante «caratteristiche esterne dell’estremismo, della violenza» potessero essere alla bisogna sbandierate, e giusto in virtù di quanto vi trapelava di elusivo dei problemi stessi che con tanta forza venivano posti: «Non si può pensare, mi sembra, di avviare a soluzione la crisi della comunicazione semplicemente dimostrandola in atto e oggettivandola nei versi […]: in questo caso non si fa che cristallizzarla, renderla una volta di più insuperabile – un idolo senza senso e senza futuro» (G. Raboni, A proposito dei Novissimi, «Aut Aut», 65 [1961], ora in Id. La poesia che si fa, cit., pp. 337 e 343). Ma qui, si sa, i destini dei componenti dei Novissimi, e di tutti gli affiliati alle strategie della neoavanguardia, vanno valutati, sulla scorta della rapida dispersione, ciascuno per suo conto. Che invece proprio quell’«idolo senza senso e senza futuro» di quegli anni si sia da allora offerto ai riti sacerdotali degl’intellettuali italiani, è difficile mettere in dubbio. Il ritornello no future, tipico delle fasi estreme del capitalismo, consuona, come attualmente sa chiunque si sia formato con il punk, con un sistema artistico assolutamente compiacente, che nel dichiararsi definitivo, ultimo, apocalittico, cospira per una lettura cinica del presente… da cui la sua conclamata vocazione al «great swindle». Né l’allogarsi, ai tempi, di tanti appartenenti alla neoavanguardia al «centro» stesso dell’industria culturale, ha sortito altri effetti se non, ritiratasi quell’alluvione, i sedimenti che sono oramai sotto gli occhi di tutti: un’arte mediana nel nome della mediocrazia mediale. Aveva del resto scritto per tempo Franco Fortini: «L’avanguardia impronunciabile è l’altra faccia della chiacchiera di massa. La saldatura fra neoavanguardia e ordine borghese-capitalistico diventa organica ed esplicita dopo essere stata, per l’avanguardia storica, solo implicita e indiretta» (F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie [1965], Torino, Einaudi, 1989, p. 62).
62G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 228.
63Sulla puntigliosità con cui Raboni distingueva «i due diversi aggettivi», ha giustamente insistito Cortellessa (A. Cortellessa, La poesia in carne e ossa, cit., p. 387). Ma, naturalmente, si ricordi la distinzione fra le «due avanguardie» proposta nel 1965 da Fortini (si veda F. Fortini, Verifica dei poteri, cit., pp. 60-72).
G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 228.
65«Comune a tutti questi poeti che formano l’’eterogenea “ala sinistra”» avrebbe dovuto essere proprio, a seguirne l’appassionata petitio principii inserita nella recensione ai Novissimi, la scelta responsabile di propagare esattamente il «fuoco» della memoria «che non si sfama mai», dal momento che, per praticare «una poesia della crisi senza essere per ciò stesso una poesia in crisi», occorreva «individuare con le proprie coordinate una realtà precisa senza annullarsi o disperdersi in essa, senza dover aspettare la propria salvezza dal di fuori, anzi, in qualche modo, proiettando fuori di sé verso il mondo […] qualcosa di simile a dei bacilli di salvezza» (G. Raboni, A proposito dei Novissimi, cit., p. 340). Andrà notato che, dopo avere una volta ancora invocato come numi tutelari Pound e Eliot, e poi Luzi e Sereni, Raboni allineava in una tale «posizione» una ben strana, ma proprio per questo molto interessante, prima linea: Fortini, Zanzotto, Risi, Leonetti, Pagliarani e persino Pasolini. Relegando dunque, trent’anni dopo, l’esperienza poetica pasoliniana alla sola «contestazione del presente», ma con la clausola aggiuntiva, alla cui volontaria paradossalità si prestò forse all’epoca poca attenzione, della sua persistente attualità «proprio e soltanto perché quel presente è anche, a nostra vergogna, questo presente», Raboni non voleva macchiarsi di un’ulteriore lesa maestà (se non, al solito, al monumento, e al diffondersi dei suoi riti praticamente in ogni dove, dai collegi dei gesuiti ai consessi di critici frementi). Nel riconoscere in Pasolini una «strategia nitidamente oppositiva», Raboni intravedeva forse giusto il percorso agli antipodi della poesia che si fa, quello che non a caso rende «poeti», sempre e comunque («innanzitutto e in tutto, nel cinema come nel teatro, nella pubblicistica come nel romanzo»), ingiungendo ad anteporre sempre il personaggio-poeta, testimone e teorico (e su una tale strategia magari Raboni scorgeva allinearsi anche gli stessi neoavanguardisti, malgrado quanto avessero eletto giusto Pasolini a oggetto polemico), all’opera stessa (G. Raboni, Ma quanto durerà la poesia di Pasolini?, «Corriere della Sera», 23 dicembre 1993, ora in PSF, pp. 299 e 301).
66La terza sezione, che chiudeva il volume edito da Crocetti nel 1985, sarebbe poi confluita (con testi successivi) in Versi guerrieri e amorosi.
67«Come frutto», ricordava Avalle smontando nel 1968 A Liuba che parte, «di una scelta precisa operata sul piano formale fra le varie possibilità offerte dal libro della memoria poetica» (D’Arco Silvio Avalle, Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi, 1972, p. 99).
68Anzi, si potrebbe senz’altro affermare che questi, li si chiami così, «imparisillabi sciolti» finiscono con l’essere la forma in assoluto più frequentata nella produzione poetica di Raboni, riaffiorando, in una versione più compatta (che ammette cioè solo endecasillabi, novenari e settenari, e naturalmente sempre con il consueto privilegio endecasillabico, sia pure nella sua realizzazione più tenue, novecentesca), anche in Barlumi di storia (i cui versi vengono sorprendentemente, o forse solo frettolosamente, definiti nel risvolto mondadoriano «liberi»), quando cioè l’urgenza della testimonianza del trauma di cui si dirà, personale e sempre politico (e via via più puntuale, come può evincersi dagli Ultimi versi apparsi postumi per Garzanti), è come se mal sopportasse di continuare a farsi ingabbiare in una forma più coercitiva. Il discorso, insomma (perché di questo si tratta, di congegni conversevoli), dovendo seguire il ritmo delle argomentazioni, tende nell’ultima raccolta raboniana a divenire disteso (in un modo che non può non rimandare, con le debite differenze, a Cadenza d’inganno), prediligendo di conseguenza una sempre rinnovabile struttura a selva, in virtù della quale esplicitare ciò che precedentemente Raboni aveva sempre preferito lasciare alle considerazioni del lettore. Questa urgenza comunicativa, insomma, muove da una volontà di presa diretta sull’oggi, che è un gesto di vitalità intensa nella malinconia del lutto e nell’immagine materialistica del proprio svanimento. Ne è un bell’esempio il quadretto memoriale di Ricordo troppe cose dell’Italia, dove, riconvocati i fantasmi di Pasolini e Volponi, entrambi in punto di morte, il primo con la sua nostalgia dell’Italia che fu, il secondo con il suo sdegno per l’esito «delle elezioni del ‘94», Raboni chiarisce il senso politico e civile dell’intera raccolta: «Di Paolo sono stato molto amico, / di Pasolini molto meno, / ma il punto non è questo. Il punto / è che è tanto più facile / immaginare d’essere felici / all’ombra d’un potere ripugnante / che pensare di doverci morire» (vv. 24-30).
69Andrà anche segnalato che, proprio a partire dalla pubblicazione della silloge di Canzonette mortali, la produzione di Giovanni Raboni non solo diverrà più puntuale (appena tre anni dopo Versi guerrieri e amorosi apparirà la raccolta Ogni terzo pensiero, seguita nel ‘98 da Quare tristis, e poi nel 2002 da Barlumi di storia), quasi a rispettare le modalità compositive di una sorta di «canzoniere» in fieri (dati gli evidenti richiami tematici e formali che collegano le varie uscite), ma scarterà in maniera decisiva verso una narrazione mirabilmente sospesa fra il presente (dell’amore, e del lutto) e il passato del trauma (bellico, e anche privato), cui fare in vario modo conseguire i «barlumi» di una storia non già da testimoniare ma ancora tutta da fronteggiare.
70«La messa a punto di una struttura del dialogo e dell’interdiscorsività», ci ricorda Maria Antonietta Grignani per l’ultimo Sereni, rappresenta in qualche modo «l’uscita dal carattere monologico, centripeto e sostanzialmente narcisistico che, nonostante la metafisica dell’oggetto, ineriva alla correlazione montaliana e eliotiana tra un pensiero-sentimento antropocentrico e l’alterità degli oggetti o del mondo animale» (M. A. Grignani, Intrelocutori dell’ultimo Sereni, cit., rispettivamente alle pp. 84 e 86).
71E si ritorna così, ancora una volta, alla memoria «che non si sfama mai», vale a dire a quel «doloroso e fecondo durare» della «ferita» bellica, («il Trauma per antonomasia, quello che spacca in due la storia del secolo»), che Raboni riconosceva, in un articolo già citato del 1990, nelle parabole di quattro poeti fra i più privilegiati dal suo canone: Bertolucci, Caproni, Luzi e, naturalmente, Sereni (G. Raboni, Le parole che abbiamo attraversato, cit., rispettivamente alle pp. 188 e 189). «Questo stare in situazione», ha commentato Andrea Cortellessa, «questo lasciarsi attraversare dalla storia – e da quella specie di sua sineddoche iperbolicamente tragica che è il “Trauma per antonomasia” – rimanendo esattamente sul suo prodursi, è certo un carattere comune ai quattro autori della “ferita”; ma a ben vedere si riverbera anche nelle nervature che, nell’edificio storiografico raboniano, si propagginano da queste fondamenta verso i piani alti» (A. Cortellessa, La poesia in carne e ossa, cit., p. 399).
72Per chiarire il senso profondo di tale attualità del trauma, principio irritativo che sopravvive al suo «aculeo» (che è esattamente la questione di «poetica» intorno alla quale Sereni e Fortini parrebbero incontrarsi), bastino questo versi raboniani tratti da un sonetto (Non sono bandiere queste bandiere) della successiva raccolta, Ogni terzo pensiero: «La verità / è che nessuna guerra è mai finita, // che la stessissima ferita geme / per sempre, che solo chi non ne ha / può scacciare i ricordi dalla vita» (vv. 10-14). Il tema della sopravvivenza della (e non alla) guerra, in cui la memoria collettiva (e la programmatica smemoratezza) s’intreccia con quella privata (propria e genitoriale, e propria in quanto genitoriale), parrebbe declinare, sul versante della formalizzazione artistica, quelle «nevrosi di guerra in tempo di pace» su cui aveva per tempo richiamato l’attenzione lo psicoanalista Sergio Finzi (si veda almeno S. Finzi, Nevrosi di guerra in tempo di pace, Bari, Dedalo, 1989, pp. 125-137): «La nevrosi di guerra», scriveva, «è penetrata nel tempo di pace. Ma questo si è reso possibile perché essa si definisce in relazione non alla guerra, ma al padre». E, più in là: «Il trauma di guerra è essenzialmente interpersonale: ecco come gioca qui il “contagio”, non passaggio di sintomi ma di persone. E uno ne soffre nella carne, per non dire nelle cellule» (ivi, rispettivamente pp. 130 e 137).Quanto poi questo stesso tema, in virtù del quale Raboni raccoglieva il testimone della poesia che si fa meno compiaciuta e autoreferenziale, abbia finito col risultare urgente e ineludibile, lo dimostrano due raccolte, entrambe apparse nel 2005 (l’una per Garzanti l’altra per Mondadori), di poeti in vario modo a lui collegati, vale a dire La tagliola del disamore di Jolanda Insana e Guerra di Franco Buffoni.
73Sbandierata a esergo della seconda sezione, risalente al 1989, un’epigrafe goethiana che avrebbe potuto essere sottoscritta da Fortini («bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi»), la raccolta si apre con un poème en prose (la cui compresenza, si diceva, funge sempre da contravveleno al rinnovato interesse per le misure e le forme della tradizione) e si chiude con la «traduzione» (le virgolette sono riprese dalle Note finali) della sestina di Arnaut Daniel, e dunque con un autentico inno alla coercitiva instabilità di ogni forma, cui seguono una serie di «libere variazioni» (in endecasillabi e settenari) «su frammenti e temi» estratti dalle canzoni del trovatore perigordino.
74È indubbio, come rileva Natascia Tonelli, che la forma elisabettiana del sonetto «trovi diritto di cittadinanza in lingua italiana a partire da celebri traduzioni» da Shakespeare (N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, ETS, 2000, p. 43), segnatamente da quelle distesissime e gravi di Ungaretti (apparse nel 1946), e da quelle, decisamente più «regolari» (malgrado la coazione alla rima imperfetta) di Montale, anteriori al ‘38 ma pubblicate nel Quaderno di traduzioni del 1948 (a fianco delle quali vanno naturalmente ricordate le versioni polimetriche di Alberto Rossi apparse nel 1952). Del resto, anche dopo le adesioni in proprio più o meno stravolgenti di Montale in Finisterre (La Bufera, 1956), di Pasolini nell’«ipersonetto» di Sonetto primaverile (1960), e di Edoardo Cacciatore nella corona di Dalla fine al principio (Lo specchio e la trottola, 1960), la stagione delle traduzioni dei sonetti di Shakespeare (e degli esperimenti metrici a essa connessa) non può considerarsi conclusa, dovendo annoverarvi anche gl’intarsi in endecasillabi e alessandrini di Augusto Guidi (per la sua antologia della poesia elisabettiana del 1962), e il «completamento» della scelta di Rossi a opera di Giorgio Melchiorri (nel 1964). Se dunque la forma elisabettiana darà apertamente vita a una «varietà a sua volta suscettibile di innovazioni o estemporanei adattamenti personali» (ivi), che sarà quella accolta da Raboni (ma solo in Quare tristis), ciò si deve proprio a quanto questa si sia offerta come «traduzione», e magari approssimativo «aggiustamento», e dunque come congegno dove convogliare più liberamente le strategie formali «novecentesche» considerate comunque irrinunciabili; basti pensare alla scomposizione del gioco rimico in Montale (e alla sua ossessione per una declinazione postpascoliana della rima ipermetra), oppure all’endecasillabo popolare e debole (in difetto o in eccesso) di Pasolini, o al consueto impeto ende-tridecasillabico di Cacciatore (che troverà la sua massima realizzazione nella raccolta del 1986, Puntura dell’assillo. Cinquanta ed un sonetto, probabilmente sponsorizzata dallo stesso Raboni).
75 Contrariamente a quanto avverrà però in questa raccolta, Troppi anni e mesi e giorni e notti e sogni, con il suo incipit scopertamente petrarchesco (ma ancora una volta, come sempre nel secondo Novecento, dai luoghi in cui Petrarca si recita «petroso»), non solo gli endecasillabi risultano assolutamente regolari (nove a minore e cinque a maiore), ma s’ingabbiano in un sofisticatissimo gioco rimico che parrebbe addirittura a suo modo smentire l’adozione della forma shakespeariana, in virtù di un infarcimento di assonaze, consonanze e quasi-rime che non disdegna nemmeno il vocalismo isotonico che, desunto dal capostipite, divenne per secoli il marchio di fabbricazione del manierismo. La forma elisabettiana, insomma, corrosa da una sorta di coazione al sonetto petrarchista, appare piuttosto svolgere una funzione di supporto al vertiginoso iperbato che infilza tutt’e tre i quartetti, per smottare poi, e risolversi, nel primo emistichio del distico finale, come a mettere a giorno da un lato la trappola che si nasconde nella «maledetta sacra scorciatoia» (naturalmente la memoria «che non si sfama mai»), e dall’altro il senso di testimonianza per cui, senza «sfuggirla», si resta, e ci si presta a quel passaggio di consegne che è il senso politico della «poesia che si fa». Si legga:
Troppi anni e mesi e giorni e notti e sogni
da che in un’ansia che non porta gioia
la maledetta sacra scorciatoia
pretende che tremando in lei m’infogni
sia che sfocata e radiosa m’appaia
più che nel vero e per il resto vera
sia che ancora più fioca di com’era
s’interni in ospedale o in mattatoio
e in altri cento modi si travesta
per farsi tunnel, tubo o corridoio,
ambulacro di scuola o d’obitorio,
pertugio d’aria che una folla infesta
sono passati. Se sfuggirla è un torto
è per restarti che non sono morto.
Rispetto a quello che dovrebbe essere lo schema rimico sotteso (ABBA-CDDC-EFFE-GG), le cose come si vede si complicano, non solo per l’insistenza lungo tutto il sonetto dell’assonanza e della consonanza di cui si diceva, ma per concorrere questa a preparare un gioco quasi-rimico a tutto campo, che consente ad esempio di scapolare dalla sequenza rimica B (giOIA-scorciaTOIA), già di suo in assonanza tonica con la A, alla quasi-rima (atona e tonica) C (appaIA-mattaTOIO), il cui secondo membro di coppia a sua volta viene replicato dalla rima F in prima battuta (corriDOIO) e riecheggiato poi in quasi-rima (obiTORIO), preparando la volata alla baciata del couplet finale (TORTO-mORTO). Stesso discorso vale per le connessioni in assonanza e consonanza che legano la coppia rimica D (VERA-ERA) alla E (traVESTA-inFESTA), il cui secondo membro di coppia, a chiudere il cerchio, si ricongiunge per annominazione al secondo di A (INFogni-INFesta).Nessun migliore esempio, si potrebbe dire, di quella che Fortini aveva a suo tempo definito, magari in piena tentazione lacaniana (ma con un orecchio al senso della riemersione del freudiano represso formale), «grammatica dell’Altro» (F. Fortini, Poesia e antagonismo, in Id., Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura, Torino, Einaudi, 1977, p. 144: «I significati dei significanti fonosimbolici […], e quelli del sistema della convenzioni ritmico-metriche, per non dire le aree connotative delle scelte lessicali, sono significati costituiti storicamente che dalla dimensione esplicitamente “contenutistica” posseduta in altre età sono entrati nella penombra e ora parlano o sembrano parlare con la voce dell’inconscio, col “mistero della parola”, con la grammatica dell’Altro…»)
76«Sogno infaticabilmente da un po’ / di tempo: come in ospedale: segno / di troppa vita o che manca, non so», recitano non a caso i primi versi dell’individuo che inaugura l’ultima sezione.
77Ne fa fede non solo, naturalmente, la misura endecasillabica, ma soprattutto lo schema rimico dei terzetti (ABC-ACB), che lo apparenta esplicitamente ad altri due individui conclusivi di quella sezione (il 21 e il 26).
78La sezione Altri sonetti offre un campionario pressoché completo di rime monosillabiche e in vario modo tenui (preposizioni, parole grammaticali, pronomi, congiunzioni, interiezioni, parti ausiliari dei tempi composti ecc.), per lo più trascorse dall’enjambement, e dunque assordate dall’andamento sintattico (basti pensare ai già citati versi iniziali del primo individuo).
79«La svolta fronte-sirma», notava Natascia Tonelli per i sonetti di Quare tristis (ma il fenomeno è già in opera in quelli di Ogni terzo pensiero), «è luogo deputato a passaggi fra i più discorsivi, a volte proprio in discorso diretto, all’interno dei quali, con frattura affatto straniante, si pone l’interruzione tipografica dello spazio bianco» (N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., pp. 38-39).
80Anzi, è l’affabile frequentazione con un poeta da sempre «convitato» nella poesia raboniana, naturalmente Rèbora, il cui impiego a tutto campo dell’enjambement, come «parte d’un progetto in cui il significato viene letteralmente differito, virtualizzato, sottoposto a violenza per poterne negare la superficiale degustabilità», è stato opportunamente messo in rilievo da Paolo Giovannetti. «Il verso di Rèbora», afferma lo studioso con un giro di frasi che potrebbe applicarsi senza nulla mutare ai versi di Altri sonetti, «forte di un’apparecchiatura linguistica e ritmica deformante, perturba spesso i costrutti sintattici che è chiamato a contenere, definendo in questo modo un modello ritmico impulsivo, progressivo, sbilanciato verso l’apertura di orizzonti sempre nuovi. E ciò avviene proprio in virtù di apparenti inerzie, vale a dire di fattori linguistici falsamente giustapposti, omologati dall’unità versale, che devono essere riferiti a costrutti logici differenti da quelli cui ci aspetteremmo di legarli. Mai come con Rèbora – nella poesia italiana del primo Novecento – l’appello alla collaborazione del lettore è stato così esplicito e vincolante» (P. Giovannetti, Metrica del verso libero italiano, cit., rispettivamente alle pp. 128 e 130-131).
81Era del resto questo il senso di quel «lavorare contro il sonetto» che Raboni ascriveva alla sua adesione alla forma (G. Raboni, Classicismo e sperimentazione contro la perdita di significato, cit., p. 142), e che parrebbe rimandare alle innovazioni apportate al sonetto (fra l’altro nel suo aspetto italiano), con la stridente cantabilità dello sprung rhythm, da Gerard Manley Hopkins (si veda N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., p. 96). L’importanza della sperimentazione del gesuita inglese per la nostra poesia del Novecento, se da un lato la si può evincere dall’influsso esercitato su poeti anche molto distanti da Raboni, e fra loro assai dissimili, come (per limitarci all’ultimo scorcio del secolo) Ermanno Krumm e Lello Voce, dall’altro torna a ribadire la funzione svolta da quello che Maria Corti, data la caratteristica smemoratezza nazionale, avrebbe potuto definire un «fantasma». È difatti allo stesso Augusto Guidi, già precedentemente convocato come uno degli artefici della diffusione del sonetto elisabettiano, che si deve, già a partire dal 1942 (e poi con la seconda edizione del ‘52, e infine con la terza del ‘65), la prima silloge di poesie di Hopkins apparsa in Italia.
82Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XXIII. Le sinthome. 1975-1976, Seuil, Paris 2005, p. 95. Non c’è individuo della sezione Altri sonetti che non denunci apertamente questa sovrapponibilità degli schemi. Ma in alcuni casi il gioco appare ancora più scoperto, mettendo a giorno un’autentica coazione alla moltiplicazione (e al camuffamento) delle strutture sintattiche e formali. Si legga il sonetto 11:
O cari infinitamente, spariti
dal tempo, non dai sogni, precursori
nostri nelle tenebre, voi se fuori
del buio c’è ancora buio o a più miti
consigli lo riducono i bagliori
senza gloria, gli stenti intirizziti
aculei d’un’alba (e, ascoltando, arditi
bisbigli) voi soli potreste, a onore
d’un altro vero, dirci, amate teste,
torsi venerati, e non dite mai,
mai! perché sia intera la libertà
del nostro arbitrio, perché non celeste
ma cieca e folle e sanguinosa sia
intanto, nell’orto, qui, l’agonia.
L’intero sonetto è in questo caso (non raro, si diceva) risolto in un unico periodo, fra l’altro smembrato da una girandola di subordinate e incidentali; sicché, ad esempio, il pronome con funzione di soggetto voi, anticipato dal protratto vocativo, appare al v. 3 prima di essere immediatamente ingolfato in una serie di subordinate (l’ultima addirittura a incastro), per poi riaffiorare al v. 8 finalmente col suo predicato verbale, frantumato però sùbito in un iperbato, cui conseguono altri vocativi che preludono all’apparizione fulminante di una coordinata che smentisce, prima ancora che si compia, l’azione stessa… A seguire poi l’andamento delle rime (ABBABAAB-CDDCEE), al di là dell’imperfetta di B4 (onORE), se balza agli occhi (alle orecchie) l’assonanza tonica cui si riduce la rima D (mAi-libertÀ), proprio quello che parrebbe una sorta di conseguenziale risarcimento fonico (la veemente duplicazione dell’avverbio).induce a sospettare che la vera gabbia formale traligni il verso (quasi ogni rima è risucchiata in un vistoso enjambement), al punto da stagliare con una solennità inattesa l’unico verso dove metro e sintassi perfettamente coincidono, e come se non bastasse in un giambo (v. 13). Le due possibili «esecuzioni» del sonetto, quella tutta esitazioni della sintassi (smentita a sua volta da una punteggiatura anomala, neumatica), e quella tutta pause del metro (esitazione su esitazione), appaiono dunque sostanzialmente bilanciarsi, creando quella «sintassi in divenire», quella «grammatica dello squilibrio», che contribuisce, per dirla con Deleuze, alla realizzazione del grande progetto della letteratura come impresa di salute: far nascere «la lingua straniera nella lingua» (G. Deleuze, Critique et clinique, 1993 [trad. it. di A. Panaro, Critica e clinica, Milano, Cortina, 1996, pp. 146-147). Ma non basta: i piani, si diceva, si moltiplicano, e un’ennesima possibile lettura s’impone in virtù dello schema rimico dei terzetti. Se difatti Raboni sperimenta in questa raccolta tutte le possibili disposizioni delle rime nella sirma (privilegiando gli schemi a rime alterne, 5 in questa sezione e 2 nella prima, e a rime retrogradate, 4 in questa e ben 7 nella precedente), occorre dire che in Altri sonetti lo schema più diffuso (7 occorrenze) è quello che appare in questo sonetto (CDDCEE), che finisce, in virtù della forza epigrammatica del conclusivo distico baciato, col fare intravedere in filigrana, a dispetto della spaziatura, la struttura della forma elisabettiana (vistosissima in 15, dove la rima A [dA-novitÀ-cittÀ-eternitÀ] e la supposta rima C [sguscerÀ-qua] coincidono, e dove la rima B [stENTA-macilENTA-invENTA-perENTA] e la D quasi [niENTE-gENTE]). Il sonetto schizofrenico è innanzi tutto un sonetto proteiforme.
83Vi è naturalmente un precedente, caudato, pascoliano, Benedizione (in Myricae).
84Apparse a Parigi nel 1978, le «rimailles» (come le definiva lo stesso Beckett) parrebbero aver sollecitato alcune delle strategie in minore dei Sonetti di infermità e convalescenza (andamento sentenzioso da massima barocca, improvvisi lampi umoristici, lallazione del ritmo, persecuzione della rima che tende a vibrare in pause innaturali; per cui si veda G. Frasca, Introduzione a S. Beckett, Le poesie, Torino, Einaudi, 1999, pp. XLIX-LII).
85Theodor W. Adorno, Ästhetische Theorie, 1970 [trad. it. di E. De Angelis, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1977, p. 55].
86E in Campana, naturalmente (si pensi alla Petite promenade du poète), autore in buona sostanza snobbato dal canone plurale, magari in quanto esempio della «strenua assolutezza lirica» su cui si era autodefinita, dalla Parola innamorata (1978) in poi e in chiara funzione antiavanguardistica, quella cosiddetta linea «neorfica» per la quale Raboni, fatta eccezione per la poesia di Milo De Angelis, non nutrì particolare simpatia (G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 249). Eppure Campana, col suo alternare, a volte intrecciare, misure tradizionali e versi liberi, «prose poetiche» e «novelle poetiche», parrebbe non lontano, almeno sulla corda dell’inquietudine formale, dalla non-monumentalizzazione della poesia che si fa.
87G. Raboni, Caproni: la follia che uccide Dio e l’allodola, «Tuttolibri. Supplemento a la “Stampa”», 22 maggio 1982, ora in PSF, p. 144.
88G. Deleuze, Critique et clinique, cit., pp. 143-144. Ne è un ottimo esempio il terzo individuo della serie:
L’ordine di non avere
un solo pelo più in basso
del mento fa come un sasso
raccolto al mare o la cera
d’un santo in un buio basso
lividamente a giacere
sotto vetro fra preghiere
il corpo che a passo a passo
liberato sul più bello
dall’odiosa sincronia
di percezione ed evento
per l’interporsi del lento
flap della preanestesia
va spensierato al macello.
Difficile innanzi tutto non avvertire, in virtù dello scanzonato ritmo ottonario, il cristallizzarsi di una memoria, addirittura personale (di poeta e di remoto lettore del «Corrierino»), dianoeticamente (avrebbe detto Beckett in Watt) divertita (non «Belle rose porporine» o «Bella guancia che disdori» ma «Il signor Bonaventura…», «Sor Pampurio arcicontento…»). Impossibile anche non avere immediatamente la tentazione di confrontare questo andare al macello del corpo «spensierato» con la marcia eroicomica, tutta anchilosi e difficoltà articolatorie, che si canta in «à peine à bien mené», che è per l’appunto un’esemplare mirlitonnade beckettiana; e addirittura ineludibile il desiderio di mettere immediatamente a esergo di questo sonetto la quartina-manifesto che principiava, con sfacciata, alla lettera, omofonia e squilibrio pausativo, quella raccoltina («en face / le pire / jusqu’à ce / qu’il fasse rire»). Anche qui, difatti, alla messa in crisi dell’andamento sintattico, al solito risolto in un unico periodo (per cui il soggetto illocutorio, con la perentorietà della sua illocuzione, è al primo verso, il predicato verbale al terzo e l’oggetto, soggetto poi della relativa che gli fa compiere, solo dopo l’apposizione che lo anestetizza, l’azione cantata dai terzetti, all’ottavo), corrisponde una perseguita tensione isofonica che, disattesa solo dall’imperfetta A2, riequilibrata però dal consonantismo con A3 (CERa-giaCERe), giunge in sede rimica all’equivoco (B1-B3, e alla quasi omofonia di B4), e nella conduzione «filastroccata» dei versi invece a un’armonizzazione a tutto campo (L’ORdine di nOn aVERE / un SOLO PELO Più in BASSO / del MENTO fa COme un SASSO / raCCOLtO al MAre o la CERA / d’un SANTO in un Buio BASSO / lividaMENTE a giaCERE / SOttO VEtRO fra preghiERE / il CORpO che a PASSO a PASSO…»). E sarà proprio da questo corpo reso a forza glabro e «spensierato» che deriverà l’esile soggetto, convocatore di bisbigli di fantasmi, e quasi pronto a sparire con essi, di Quare tristis.
89Cui naturalmente non sarà estranea la lezione anche dell’ultimo Rèbora (se i Canti dell’infermità traspaiono nel titolo della sezione come una sinopia), e della sua «poesia che continua, incorpora e pronuncia il silenzio» (G. Raboni, Modernità di Rèbora, cit., p. 27).
90Interrompendo l’immagine memoriale (materna), a sua volta invocata per porre fine a un sogno e alla sua «oscena materia del buio», poi d’improvviso solidificata nel trasalimento di una mano che per davvero «sfiora» (difficile non pensare allo straordinario ultimo teledramma beckettiano, Nacht und Träume), e interrompendola sulla perentorietà del trisillabo «più niente», Raboni non ricorreva alla figura dell’aposiopesi ma segnava piuttosto il limite estremo della sua adesione alla forma (e della «comunione dei vivi e dei morti» cui questa rimanda). Se, insomma, il sonetto si era offerto come congegno privilegiato della commistione dei tempi che consente alla poesia di farsi sapere (cioè il feedback, a suo modo fortiniano, fra memoria e speranza), il perentorio futuro che nega ogni altro futuro con cui l’immagine s’arresta («…Sfiora // allora davvero una mano il mio / corpo assiderato e di colpo so / d’averti chiamata e che non saprò / più niente»), lasciando per l’appunto gelidamente irrelato quel «mio» che si sottrae al suo «corpo», prefigura la diserzione dei fantasmi tematizzata dalla poesia posta sulla soglia di Barlumi di storia (Smettila, hai capito? di immaginarci), dove pure ritorna «in primissimo piano», nella «luce / che da rosa si fa viola», l’immagine di una «mano d’adulto». Nell’esortazione che rivolgono al poeta gli attori memoriali («non volere dal tempo / quello che il tempo non potrà non darti»), si riflette il senso dell’abbandono della forma (al futuro anteriore) del sonetto.
91Vistosissimi gli enjambements, e a maggior ragione quelli strofici, sicché, per limitarsi ai soli sonetti elisabettiani, lo stesso distico finale, oltre ai vari passaggi fra quartetti, come notava Natascia Tonelli, «viene di solito prescelto come sede di continuità versale ad annullare le partizioni metriche» ((N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., p. 43). Basti pensare che, con l’eccezione di quello che chiude il sonetto ventisei, l’unico couplet per davvero sintatticamente isolato (addirittura preceduto dai due punti, e dunque con forte connotazione epigrammatica) si legge nel quindicesimo individuo («si celebra al netto d’ogni lamento / la cerimonia del disfacimento»).
92Cui va aggiunto l’uso delle sdrucciole con funzione di rima, segnale esplicito della cantabilità «melodrammatica» eletta dall’intera raccolta.
93Una straordinaria rima equivoca contraffatta, e straordinaria soprattutto per la pregnanza di senso che vi si nasconde (quasi vi fosse stato criptato il tema tutto dell’intera raccolta), si può leggere nel couplet del sedicesimo elisabettiano della terza sezione (Non sono poi così incerti i confini); «VIVIAMO» in rima sontuosa con «viVI VI AMO», però, non è solo un’insegna di eccellenza, anzi non lo è per nulla. Se l’invito a vivere che chiude il sonetto perimetra un luogo che non sta nei piccoli confini di un idiosincratico ma friabile mondo («ma è più // facile non farcela, è più probabile / che l’asfalto ci inghiotta»), che non è altro che la zona di Milano intorno a Porta Venezia (attraversata e riattraversata, nel tempo non solo nello spazio, in tante poesie, e in tutte le prose inserite da Raboni nelle sue raccolte, a partire da quella che apre Versi guerrieri e amorosi), allora la rima equivoca contraffatta non solo racchiude in altri confini un’altra comunità, quella «dei vivi e dei morti» («Ah, stiamo qui, viviamo, / papà, mamma! dove vivi vi amo»), ma riconosce senz’altro nel sonetto (nei non tanto «incerti» confini della sua forma) la cartografia dove tutto ciò diviene possibile. È in questo senso che il sonetto schizofrenico di Raboni svolge la sua funzione di «ricevitoria del lutto».
94Basti pensare alla sequenza rimica B del primo individuo della raccolta ( Tanto difficile da immaginare), dove basta si scempia nel successivo sta (in arsi) e si riconfigura nella coppia festa-desta, ma con una serie di espedienti armonizzanti di notevole efficacia: basta recupera in atona la vocale necessaria nella clausola da cui si espone («ma se basta», che fra l’altro il parlato renderebbe: «ma se-basta»); sta, invece, ottiene lo stesso effetto con l’ausilio della precedente tonica («vedErlo, sta»). D’altra parte, non occorre altro che analizzare più da vicino l’intero quartetto (limitandosi, fra l’altro, a questo), per accorgersi che quanto il sonetto ancipite disattende della compostezza del congegno viene abbondantemente risarcito dall’orchestrazione delle figure foniche: «TAnTo DiffIcile DA iMMAginARE / DAVVERO, il PARADIso? MA se BASTA / CHIUDere gli oCCHI per VEDERLO, STA / lì DIETRO, DIETRO le PALPEbre, PARE…».
95Jean-Luc Nancy, À l’écoute, 2002 [trad. it. di E. Lisciani Petrini, All’ascolto, Milano, Cortina, 2004, pp. 34-35]: «Il soggetto dell’ascolto, o il soggetto all’ascolto (ma anche quello che è “soggetto all’ascolto” nel senso in cui si può essere “soggetti a” un malanno, a un’affezione e a una crisi), non è un soggetto fenomenologico, cioè non è un soggetto filosofico, e anzi, in definitiva, non è forse un soggetto, ma il luogo della risonanza, della sua tensione e del suo rimbalzo infiniti, l’ampiezza del dispiegamento sonoro e la ristrettezza del suo simultaneo ripiegamento – attraverso cui si modula una voce nella quale vibra, ritirandovisi, la singolarità di un grido, di un’invocazione o di un canto».
96Così nel sonetto successivo, Eroi dispersi, non più o non ancora. È del resto attraverso questa ricezione imperfetta, e sempre disturbata, di voci fioche, che il «soggetto all’ascolto» conduce il suo febbrile, ma «a vuoto», «corpo a corpo con il virus dell’oblio» (Numeri sbiaditi o divelti, rete, vv. 13-14).
97Non era del resto con una «mano» che stava «già toccando la manopola di bachelite della radio» che si chiudeva la prosa incipitaria di Versi guerrieri e amorosi?
98Questa fragrante immagine, che equipara il soggetto ai transfiniti di Cantor (e che finisce con l’essere una definizione adeguata del concetto stesso di forma), si legge nel penultimo verso dell’undicesimo sonetto elisabettiano.
99Per comprendere come funziona la camera d’eco di questo io-bisbiglio, si legga il decimo sonetto della prima sezione.
«Digli qualcosa, pensa che è venuto
solo per te» sentivo in un bisbiglio
dirgli qualcuno. Ma se ero io
a essere, da quando ero lì, muto
non sapendo chi di noi due era il figlio,
chi domandava e chi chiedeva aiuto,
chi era la copia, il sosia, il sostituto
dell’altro… Che strano, buffo scompiglio
in quella stanza sul cortile dove
siamo morti un po’ tutti, prima uno
poi l’altra e poi chissà e non sai se piove
o nevica, se è ancora il ‘51
o è già il ‘53, se il sogno è dove
ci siamo tutti o non c’è più nessuno.
L’immagine memoriale, al solito acustica, è un’esortazione, appena bisbigliata, con cui un soggetto indefinito invita a dire, a dire qualcosa; l’oggetto di questa esortazione, come esplicita il quinto verso, è il padre malato, e al contempo, nel paradossale rovesciamento dei ruoli familiari che si esperisce sempre quando un genitore diviene da accudire (e ancora di più quando lo si accompagna alla morte), lo stesso figlio, allora «muto» come il padre, ma che adesso, qui per noi, per davvero dice «qualcosa», una volta ritornato a riascoltare quel «bisbiglio». E dice qualcosa, quel figlio così incerto del suo ruolo, rimanendosene muto di faccia a qualcuno che a sua volta è venuto proprio per lui, e che se ne sta muto, almeno fino a quando il congegno del «sonetto all’ascolto» non lo indurrà a dire, e dirsi: «digli qualcosa». Conseguenzialmente, la rima B dell’ottava orchestra una pseudo-irrelata (con un procedimento simile a quello che si è visto in opera nel primo sonetto), che è, neanche a dirlo, la parola «io», addirittura balbettata nel verso che la pone in esponente (due dialefi tesissime in quel «ma se ero io» che prelude all’ingresso del «soggetto» che si porrà all’ascolto), e poi risucchiata, ma come per mutilazione più che per assonanza, nella sequenza «bisbiglio-figlio-scompiglio» (l’«io», come eco del «bisbiglio» che lo riattiva, è sempre una mutilazione, nel transito generazionale, della parola che qui lo contiene, «figlio», e una dolorosa e banale dispersione, «scompiglio», di quanto lo ha contenuto). La memoria «che non si sfama mai», allora, non è tanto un riandare a frequentare i propri ricordi, pietrificati e insulsi né più né meno delle commemorazioni dei fatti della storia. È piuttosto un tornare ad ascoltare voci che non si sono ancora dissolte, che hanno insomma ancora per chi essere dette, per il semplice fatto che tornano sempre puntualmente a dirsi, allo stesso modo, o con la stessa modulazione interiore, per tutti. E quando l’ io-bisbiglio scopre che «in quella stanza sul cortile», ci fosse o non ci fosse quel cortile, e fosse o non fosse una stanza, «siamo morti tutti», non fa altro che, osservandosi, osservarci, e contarsi, e contarci, per «uno» (sia o non sia stato quel «’51» l’evento che ci ha via via reso la camera d’eco dove prima o poi risuona «nessuno»).
100Esemplare il nono sonetto della prima sezione, «Caduto in A.O.», certo perché no.
101Si pensi già alla seconda sezione di Quare tristis, le Stanze per la musica di Adriano Guarnieri, da cui si sono tratti i versi citati.
102Che svolgono qui, e il fatto non è privo di importanza, la stessa funzione assegnata nelle precedenti raccolte alle prose. Anzi, si potrebbe dire che un esplicito richiamo tematico, quello per l’appunto del riattraversamento (nel tempo e nello spazio) dei luoghi in cui Raboni ha vissuto (Porta Venezia e dintorni), che sono poi gli stessi luoghi in cui sorgeva il lazzaretto della peste descritta da Manzoni, lega il poème en prose iniziale di Versi guerrieri e amorosi (dove è il fantasma del padre a rianimare, attraversandolo in tram, quello stesso percorso), la Piccola passeggiata trionfale della raccolta successiva e questi endecasillabi sciolti (a cesura sintattica, come quella dei sonetti) dove riaffiorano spettrali, nelle «bolge» attuali del corso brulicante «di commerci frenetici» (Buenos Aires), i resti «d’un antico ricetto di sventure» e un ben più personale «luogo / d’abominio e salvezza», un «cinemino / di puttane a poco prezzo da poco / redento in supermarket». Questa tematica, a ben vedere, più che replicarsi nelle due prose (più decisamente narrative) della raccolta successiva, finirà col condensarsi nella divertita, allegorica pochade dell’indecidibile direzione dei due tram circolari di Milano che si canta nella terza sezione di Barlumi di storia. Da un tram all’altro, girando in senso inverso, il cerchio si chiude.
103G. Raboni, Nella poesia di Saba c’è un mistero: la trasparenza, cit., p. 14.
104G. Raboni, L’attesa di senso, cit., p. 47.
105G. Raboni, Quattro tesi sulla poesia italiana del dopoguerra, «Aut Aut», 55, gennaio-febbraio 1960, ora in PSF, p. 184.
106G. Raboni, La «riscoperta» di Ungaretti nella seconda metà degli anni Settanta, in Atti del Convegno internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino, 3-6 ottobre 1979), a cura di C. Bo, M. Petrucciani, M. C. Angelini, E Cardone, D. Rossi, Urbino, 4Venti, 1981, ora in PSF, p. 51.
107Si veda, ovviamente, la Nota dell’autore, in Giovanni Caproni, Il «terzo libro», Torino, Einaudi, 1968, pp. 5-6.
108G. Raboni, Caproni al limite della salita, «Paragone-Letteratura», 334, dicembre 1977, ora PSF, pp. 136-137.
109«Allora, è cambiato qualcosa?», si chiedeva Raboni recensendo Composita solvantur e sottolineando la sua nuova attenzione senza più remore alla poesia fortiniana. «No, in fondo non è cambiato niente, il poeta che ci viene incontro da queste pagine è il poeta che conoscevamo, lo stesso poeta che ruvidamente amavo d’un imperfetto amore filiale; siamo cambiati noi, sono cambiato io che leggo – ma so che sono state anche queste poesie, queste sue poesie, a farmi cambiare» (G. Raboni, Fortini: paesaggio dopo le battaglie, «Corriere della Sera», 24 marzo 1994, ora in PSF, p. 262). Ma una più attenta rilettura di Composita solvantur potrebbe magari rivelare quanto questa attenzione di Raboni per Fortini non fosse a senso unico, e come insomma i due poeti si siano nel corso del tempo, per così dire, «affratellati».
110G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 193.
111E soprattutto nei suoi momenti di massima adesione alle forme tradizionali, come ha notato Natascia Tonelli mettendo giustamente in risonanza Sonetto e il quarto Lamento di Caproni (N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., pp. 136-137).
112G. Raboni, Fortini: paesaggio dopo le battaglie, p. 261. E si ricordi, per illuminare le ragioni di questo gustatissimo ossimoro, oltre al passo da Poesia e antagonismo citato nella nota 75, la lettera di Fortini a Pier Vincenzo Mengaldo, nella quale questi rivendicava di avere sempre sottolineato «la contraddittorietà organica della forma (nel caso, poetica) ossia la sua attitudine a essere tanto strumento di liberazione – o meglio: proposta, “spettro” di essa ­– quanto sua illusione» (in P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 404).
113«Per non avallare il presente, che gli ripugna (e dunque, fra l’altro, per non accettare di rivolgersi, come tutti i poeti moderni, soltanto a se stesso), Fortini immagina (vuole immaginare) di rivolgersi ai posteri che, in un futuro liberato, leggeranno i suoi versi. […] Fortini, in un certo senso, diventa egli stesso quei posteri: ne prefigura e ne adotta il punto di vista; ne dissimula il distacco, il raccapriccio, l’ironica comprensione, la fredda pietà» (G. Raboni, Ma il futuro abita qui, «Il Messaggero», 29 maggio 1984, ora in PSF, p. 259).Queste stesse considerazioni, dunque, vanno poste all’origine delle forme al «futuro anteriore» praticate da Raboni a partire da Versi guerrieri e amorosi.
114A proposito di una variante del «tema del cortile», il «tema del “pranzo con amici”, scriveva Mengaldo nella sua lettera a Fortini: «Per un giovane capo e I ricongiunti sereniani, nell’analogia del motivo della comunione spirituale che deve o vuole dichiararsi ostensibilmente, raffigurato nella tavolata, e anche (in te più implicitamente) della comunione di vivi e morti, si differenziano a fondo almeno per questo: che in Sereni il presente simbolico è sentito come ripetizione e commemorazione del passato, e perciò anche, indipendentemente dalla presenza di un revenant, cerimonia funebre; in te come attesa di morte che tuttavia è anche proiezione nel futuro, un futuro che può ricollegarsi al passato, non solo personale, e inverarne sia pure tragicamente la “speranza”» (P. V. Mengaldo, Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia, 1980, ora in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, p. 390). Questo stesso tema, apparentemente «cerimonia funebre», in realtà, come si è visto, «proiezione nel futuro» performativo, attraversa tante poesie raboniane (per cui si veda la precedente analisi di Digli qualcosa, pensa che è venuto di Quare tristis).
115E comune, fra l’altro, anche all’ultimo Montale (si veda G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 231).
116Ivi, pp. 212-213. Quel continuo uscire dalla forma e rientrarvi per tornare a negarla (come se così, con un’estensione del paradosso del cretese, si potesse in essa fare emergere la vita), con cui Pasolini regolò a mano a mano i conti con la poesia e col romanzo (non già, e la circostanza andrebbe sottolineata, con il cinema); quell’assunzione in proprio dell’opera nel suo complesso come trampolino di un ruolo (di testimonianza, di controcanto, di denuncia), con cui Pasolini divenne Pasolini, e che tanto piacque a chi all’epoca lo seguì per scorciatoie, e tanta ancora oggi frenesia invasa nei critici più golosi del «caso», non poteva non destare in Raboni un sospetto, che non disperse mai però l’attenzione (talvolta cauta ma comunque partecipe) all’opera, di «ambiguità» perseguita razionalmente. «Dichiarando la propria ambiguità esistenziale e ideologica – come quando si proclama, insieme, marxista e cattolico, autodenunciando lo scandalo di contraddirsi e, al tempo stesso, rivendicando la libertà di contraddirsi – Pasolini razionalizza l’ambiguità stessa, sottraendola, per così dire, al suo luogo originario, cioè alla naturale polisemia del linguaggio poetico. Egli opera così una sorta di compensazione, di travaso: estrae ambiguità dalla forma per immetterla nel contenuto; assume su di sé, sulla propria persona di poeta, l’irrazionalità che appartiene al linguaggio poetico. In questo senso egli agisce, certo, come un poeta “civile”, ma si potrebbe anche dire che sceglie per sé la parte della vittima sacrificale, accettando di espiare, o perlomeno di confessare, il comune “peccato” dell’irrazionalità» (G. Raboni, Razionalità e metafora, in Pier Paolo Pasolini. «Una vita futura», a cura di L. Betti, G. Raboni e F. Sanvitale, 1985, ora in PSF, p. 296).
117G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 232.
118Si pensi alla sezione Fuori catalogo di Segnalibro (1982). Per la coazione, attraverso la ripercussività allitterativa, al quattrocentesco bisticcio (ma anche all’asticcio) nei sonetti di Sanguineti, si veda N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., pp. 74-76.
119Il riferimento, ovviamente, è al Novissimum testamentum del 1986 (si veda G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 232).Per quanto poi questa frammistione fra le forme codificate della tradizione e la «colloquialità spastica praticata da un io miniaturizzato e pervasivo, autoparodico nella messa in scena di sé» (Niva Lorenzini, Reportage sulla poesia, in Ead., G. Giovannetti, Le parole esposte. Fotostoria della poesia italiana del Novecento, Milano, Crocetti, 2002, p. 101), si debba a quella stessa «ironia stilistica» che Sanguineti aveva «per tempo perfettamente definito», e per l’appunto «a proposito di Gozzano», si veda A. Cortellessa, Morire per Sanguineti, «il verri», 29, ottobre 2005, pp. 96-98.
120G. Raboni, Zanzotto: l’oltraggio, la salvezza, «Paragone-Letteratura», 222, agosto 1968, ora in PSF, p. 310.
121N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 153.
122G. Raboni, Nel bosco di Zanzotto, «Rinascita», 16 marzo 1979, ora in PSF, p. 313.
123Il periodo in cui cade la recensione a Galateo in Bosco è, si badi bene, lo stesso in cui si assiste, nelle pagine critiche raboniane, all’apparentemente inattesa riemersione di Ungaretti, nonché al ripensamento sulla funzione del «declamato astratto» fortiniano, che da Foglio di via sarebbe giunto a innervare lo «“staccato” ironico-sapienziale di non pochi e non secondari testi di Una volta per sempre e Questo muro» (G. Raboni, Temi resistenziali e «stile di traduzione» in Foglio di via, in «Paragone», 360-362, febbraio-aprile 1980, ira in PSF, pp. 256-257).
124G. Raboni, Introduzione a Patrizia Valduga, Quattordici sonetti, «Almanacco dello Specchio», 10, Milano, Mondadori, 1981, ora in PSF, p. 377. Anche sul piano delle elezioni sintattiche e lessicali, molte delle caratteristiche che si sono riconosciute nella doppia esecuzione del sonetto raboniano parrebbero per davvero prefigurate dalla «viva, vivissima […] lingua» in cui i sonetti di Valduga «si scrivono, vengono scritti» senza escludere nulla, «né la verticalità preziosa e sin erudita […] né, per contro, l’orizzontalità dell’esilarante e atroce parlare quotidiano» (ivi, p. 378).
125E invece, scriveva Raboni nel 1986 a proposito di Montale, «non sempre i poeti più anziani influenzano i più giovani; può anche accadere il contrario» (G. Raboni, Il poeta innamorato fa il verso dimezzato, «Europeo», 1° novembre 1986, ora in PSF, p. 66).
126G. Raboni, Per il verso giusto, «Europeo», 16 febbraio 1990, ora PSF, cit., p. 364.
127G. Raboni, Nella poesia di Saba c’è un mistero: la trasparenza, cit., p. 14.
128G. Raboni, Isolato nella melodia, «Il Messaggero», 27 maggio 1986, ora in PSF, p. 89.
129Ma occorrerebbe ricordare anche le «partiture per metronomo» di Cacciatore (G. Raboni, Cacciatore: torna la poesia del silenzio, «Corriere della Sera», 2 dicembre 2003, ora in PSF, p. 267).
130Come si esprime, a proposito di Cento quartine e altre storie d’amore (1997), lo stesso Raboni nelle uniche pagine inedite della raccolta curata da Andrea Cortellessa ( PSF, p. 380).
131È esattamente questo il modo in cui funziona l’io-bisbiglio di Quare tristis, sempre sollecitato da un’intrusione (basta dare anche una rapida occhiata ai versi incipitari) nella camera d’eco del «sonetto all’ascolto». Nel caso dell’individuo da cui si è tratto il titolo di questo lavoro, il gioco diventa tanto scoperto da poterlo considerare una sorta di illustrazione del procedimento. Si parte da un errore di lettura (un guasto) con cui la vista affievolita del «soggetto all’ascolto» («che s’inneva // per troppa luce e va a picco se regna / o incombe la notte»), trasforma l’«insegna» di un’innocua ricevitoria del lotto in un bisbiglio coattivo che dà il via al meccanismo. Non si tratta di un semplice lapsus (Versprechen), ma di uno di quei «lapsus programmati» nella cui «radiosa trasparenza» Scialoja occultava «i bozzoli e le spoglie di tutte le angosce, di tutti i terrori» (G. Raboni, Prefazione a T. Scialoja, Poesie 1961-1998, cit., p. 362), dal momento che sùbito la mente «solleva dubbi» e lavora per ripristinare la comunque dichiarata impossibile «lezione corretta», con un rallentamento tale da rimandare alla più complessa dimenticanza (Vergessen) dei nomi propri, di cui il sonetto tutto inscena (ed è questo il suo teatro da camera) il meccanismo psichico. Con la stessa inattesa frenesia (la mente «fa leva / sulla norma, congettura, s’ingegna…») con cui il dottor Freud (con il suo tarlo mortuario in testa) e il suo compagno di carrozza fra Dubrovnik e un’ignota località dell’Erzegovina si erano scambiati i vuoti a perdere dei perturbanti sinonimi di una parola che non giunge (è il famoso episodio «Signorelli» riportato nella lettera a Fliess del 26 agosto 1888, e poi confluito nella Psicopatologia della vita quotidiana), questo sonetto prende il via, direbbe Lacan, dal «modo d’inciampo» che presuppone già, in una certa misura, il «prodursi» di ciò che si presenterà come una «trovata» (J. Lacan, Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), 1973 [trad. it. di G. Contri, Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Torino, Einaudi, 1979, p. 26).Ciò che la vista indebolita legge, è anche in questo caso il bisbiglio che in prima battuta dovrà dirsi il lettore, cui si chiede non solo di essere responsabilmente tale «ricevitoria» (non è questo il suo ruolo da quando ha cominciato a leggere, e magari a domandarsi, Quare tristis?) ma di entrare a pieno titolo, data la natura conversevole della forma, nel gioco del meccanismo psichico e della sua «contagiosità» («In una conversazione tra due persone», notava lo stesso Freud, «basta sovente che una dica di aver dimenticato questo o quel nome per farlo uscire di mente anche all’altra»; Sigmund Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens, 1901 [trad. it. di C. F. Piazza, M. Ranchetti, E. Sagittario Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere 1900-1905, Torino, Boringhieri, 1970, p. 90]). Il rallentamento della forma, però, mette in scena in questo caso il seppellimento (comunque impossibile) di ciò che il lapsus ha dissepolto (la mente, esattamente all’opposto di quanto in quell’occasione aveva fatto Freud per poter infine incrociare le orbite vuote di Herr Tod, «s’ingegna // a otturare con più terra le fosse / e a soffiare sui ceri in sacrestia»), rivelando così la sua natura di congegno atto non solo a raffreddare il pensiero (e a de-sublimarlo), ma a garantire, scavallando il tempo, la trasmissione stessa del sapere, cioè la messa in circolo di quello stesso pensiero una volta opportunamente immerso nella soluzione refrigerante in cui s’indistinguono la memoria (e il suo lutto, che è fedeltà a un evento) e la speranza (con l’alea della sua lotteria).
132Paul Valéry, Cahiers, I, édition établie, présentée et annotée par Judith Robinson, Paris, Gallimard, 1973. Con un giro di pensieri non dissimile, Raboni proponeva già nel 1962, come ha opportunamente segnalato Cortellessa, di identificare la poesia, quanto meno quella da fare, «con quel modo di pronunciare una parola – qualsiasi parola – che arriva a “mostrarne la corda”, l’anima meccanica, vile, eppure resistente; la non autenticità e tuttavia la resistenza delle convenzioni linguistiche, e insieme delle convenzioni sociali, psicologiche, culturali che stanno dietro ad esse» (G. Raboni, Mostrare la corda, «Aut Aut», 69, maggio 1962; citato in A. Cortellessa, La poesia in carne e ossa, cit., p. 395).
Da Per Giovanni Raboni. Atti della giornata di studi (Firenze, 20 ottobre 2005), a cura di A. Dei e P. Maccari, Bulzoni, Roma 2006. Riapparirà nel 2010 in una raccolta di saggi di Gabriele Frasca edita da Liguori.