RABONI, LA MUSICA FERITA DELL’ENDECASILLABO

di Marco Ceriani

Problematicamente – e ormai paradigmaticamente – aperto è l’orizzonte di attesa che in questi ultimissimi anni si sono assegnati i Meridiani. E in maniera più visibile nel campo della prosa (dove accanto ai classici, con magistero impareggiabile – sempre! – curati, appaiono anche “venerabili” «campioni merceologici») che in quello della poesia. Ma anche qui «catafratti nella loro epidermide blu scura», come con pungente stilo osserva Siti nella sua curatela di Pasolini, spiccano i dieci volumi (un vero monstrum) dedicati a colui che fra gli scrittori fu il più devoto all’«imperfezione», e i cinque più un volume di indici dedicati a Montale. Poi una sparuta pattuglia, nel campo della poesia, di poeti “aurei” si sgrana sotto i nostri occhi e a tale riguardo un merito i Meridiani sembrano condividerlo con le loro origini: quello di inscrivere costoro, i prescelti, nel «novero dei poeti letti». Essi sono, in ordine di apparizione: lo splendido Sereni, pubblicato nel 1995 e con grande acribia ipostatizzato da Dante Isella, quindi a seguire Bertolucci, Caproni, Luzi, Zanzotto, Giudici e, ultimo ma non ultimo, Raboni. Sette piccoli idoli «catafratti nella loro epidermide blu scura», di cui quest’ultimo, curato come meglio non si potrebbe da un nostro studioso di punta, Rodolfo Zucco, è epitome di quei sei precedenti. L’aver indicato, a chi mi legge, quei due esempi, il pasoliniano e il montaliano, vuol essere esortazione, per chi guida le sorti di questa prestigiosa collezione, a considerare per questi sette poeti, o per qualcuno di essi almeno, Raboni non escluso, e dopo l’omissione ai danni del Sereni prosatore, le cui prove narrative – relegate in una collana laterale – sono un vertice assoluto dell’intero Novecento, l’opportunità di un’aggiunta, o d’un addendo, dedicato segnatamente alle loro scritture altre.
Perché un avvio così eccentrico e oggi poi che abbiamo davanti agli occhi il monumentale volume dell’Opera poetica di Giovanni Raboni? Già il titolo di questo florilegio (non d’autore ma dovuto, credo, a Zucco) è una provocazione, se un fait divers come il libro delle mirabili Devozioni perverse può figurare accanto ad altri due segmenti delle prose del Nostro: le saggistiche di Poesia degli anni sessanta e le creative della Fossa di Cherubino, queste ultime, a voler ben vedere, da intendersi come una costola della mediana Cadenza d’inganno. Significando con ciò come la prosa in Raboni, davvero ancillarmente, si affianchi alla poesia e la fecondi, e come sul diarista “intermittente” delle Devozioni un altro si incisti, quello assai curioso delle cose di cinema e delle arti figurative, della musica e dei fatti di costume. E davvero qui l’opus si fa magnum ed imperviamente scrutinabile. Di queste intersezioni di prosa e poesia Zucco, da par suo, dà, in più d’una sede, conto col suo acuminatissimo specillo, ma detto questo siamo solo alla soglia dei meriti e dei misteri di questo grande libro. A voler accertare i quali non basterebbe lo spazio angusto di una recensione. Tra di essi il principale è l’aver voluto, per scrupolo pari alla sollecitudine filologica, proporre l’A tanto caro sangue mondadoriano del 1988 nella sua veste integrale, «epitome» come la soccorrevole formula critica di Zanzotto che a questo Meridiano premette alcune densissime pagine recita, e «romanzo diacronico» che staglia “in abisso” il Raboni che fin lì precedeva – e di questa amorosissima improntitudine dobbiamo esser grati allo studioso feltrino. Dai tre addendi maggiori che componevano a quella data la sua storia di poeta – né va dimenticato che già con il confluito nelle Case della Vetra, a questi ripensamenti o aggiustamenti di tiro egli poté dedicare la più virtuosa attenzione – Raboni ricavò la struttura elementare e portante dell’A tanto caro sangue, le cui «sezioni» o «capitoli», ricomposti secondo una nuova scansione in numeri ordinali, ricevono da una siffatta configurazione un ricompattamento metrico e figurale e inedite tonalità già quasi costrittive, presaghe dell’avvento della forma chiusa, a tal segno forbite, come per un lavoro di intaglio, che il lettore ha l’impressione quasi di poter toccare con mano una nuova tenace unità di libro e, nello stesso tempo, assiste all’ “allontanamento araldico” dei vecchi testi, che si stagliano a una distanza ascetica come per un parossismo di campi lunghi, sfaldandosi a quel tavolo di lavoro per effetto d’una lima che li costringe in spoglie, in scaglie, in nere ardesie, o assottigliati come «bastoni» perché si infilino «nei loro loculi di noce»: è sempre l’«ottica mortuaria» di cui discorreva Bellocchio ma qui esplicitata con la massima evidenza folgoratrice in questo libro «al centro della bolla, nel cuore/ della mappa» dell’impero. Sto parlando, si badi bene, di un puro effetto ottico. Senza quasi riscrivere una poesia, se non per minimi aggiustamenti o incruente amputazioni, il risentito moralista e realista di stampo pariniano o manzoniano che si confronta con l’enigma posto dall’esistenza degli oggetti, fa subentrare a quella prima incarnazione l’anima in fil di ferro d’una seconda, sgomenta depositaria d’ombra che trafigge cosa salda, di incorporeo che legge attraversandolo il corporeo e lo sfronda a talismano di poche cifre soltanto. Ma anche questo è un inganno, sollecitato dalla soffertissima partizione (partitura?) raboniana, che lasciando intatto il secco “giuridico” atonalismo del passato, fa presagire la franta curvatura del trobar clus della sua vecchiaia estrema. Come un Bacon che dal figurativo lasci trasudare la più squassante defigurazione. In questo senso A tanto caro sangue è la chiave di volta dell’intero sistema raboniano. E in questo senso il libro è una «cruna»: ecco un altro mot-clef dell’autore. Libro-cruna d’ago ma anche libro-cerniera o feritoia. La transizione che esso registra è, per il passo obbligato dei Versi guerrieri e amorosi, quella che porterà allo stupendo dittico dei sonetti, vertice insuperato del Secondo novecento, se non forse per le due eccezioni – e da questa trinità così costituita non si esce – degli Strumenti sereniani e del Galateo zanzottiano, quello Zanzotto che qui dice, della stagione del Raboni penultimo, con squadra che magistralmente si attaglia al suo oggetto di indagine.
Testimonia, il sonetto in Raboni, di un versamento di liquido nello stampo della forma, ma anche di come quel liquido, ribelle a ogni costrizione, faccia sobillare i suoi enigmi più oltraggiosi: la voce – nel sonetto inteso parodicamente, compagno d’agonia di un secolo a sua volta agonizzante – raziona tutte le sue coloriture, distribuendole lungo l’arco versale, per preparare così l’adempimento della rima. Qui la rima è accidente che un tale adempimento elude, e solo la voce rimarcandola ce la fa sentire, ultimo anello di una catena di inciampi. Distonia o dispnea, graffiata phoné o abrasa che in un rondò kantoriano sbilica via dal taglio delle cesure, il sonetto in Raboni è macerato al suo interno da improvvisi del cuore che rammemora e da crepe della voce che si affatica. Tutti i medicamenti che un secolo magnanimamente luttuoso gli metteva a disposizione, dal prediletto Hopkins ai bouts de souffle di Beckett, sono qui adoprati come equanimi antidoti, filtri seduttivi, talismani da questo poeta di poeti. E se una assez bonne enseigne possiamo eleggere a sua lode, essa passa per quello sbilicare via, di cui s’è detto poc’anzi, in sede di rima: ed è «la comunione dei vivi e dei morti» in sede di rima sdrucciola o imperfetta, ipo o ipermetra, per l’occhio, scazonte o scalena. Ma chi volesse seguire Raboni in questo suo aspetto legga il doviziosissimo Zucco, un valente dei cui meriti è impossibile dire con penna intinta in un inchiostro esaustivo. A soggiungere, per il sonetto raboniano, d’una vocazione sperimentale che si inoltra fin nella stagione estrema del poeta (sperimentale come lo è una lima struggentesi su un saggio di pietre o di metalli), e pur intattamente esordiale, tanto il Raboni ultimo o penultimo si salda al primissimo, quel devoto dell’atonalità eliotiana. Resterebbe da dire dei versi per il teatro, aurorali se non si ricongiungessero in alcuni loro segmenti al Raboni di sempre; delle imitazioni da ceppi extravaganti: Mallarmé, Apollinaire, Laforgue; dell’infinito regesto operato in sede di Cronologia da Zucco, una cronologia dallo spettro documentario amplissimo, che in scorci epifanici commoventi anticipa il Raboni perversamente devoto; delle quattrocento e più pagine di Apparati critici (con disiecta membra, pièces refusées, arti esculcati messi sul tavolo operatorio di una ostinatissima intelligenza critica); e d’ogni altra infinita risorsa e strumentazione utile alla migliore intelligenza del macrotesto raboniano. Per produrre con questo Meridiano un gran volume che non esaurisce tutte le possibilità offerte da Raboni, ma che tuttavia ne allerta, per un futuro che ci auguriamo vicino, l’esaustività.

«Stilos», 24 ottobre 2006