Autoantologia

Alba

Ormai fa giorno. Non basta
sedere gravemente sulla sedia di paglia
vestito di canna e di sangue
ascoltando le ingiurie dei soldati, ospitando nel fianco
l’orma sintetica della lancia. Perché sia giorno bisogna
avere gli occhi lontani dalla guancia,
l’unghia sparsa dal dito,
una mano di calce sopra il cuore.

Gesta Romanorum, 1951-1954



Rammarico del viceré

Non si va avanti né indietro.
Non si guarda né a destra né a sinistra,
né in basso né in alto. Tutto, ormai,
filerebbe secondo le istruzioni
se non fosse per questi apostoli di merda,
per queste incredibili dodici persone
che fra essere morti e essere vivi
trovano sempre qualche differenza.



La discussione sul ponte

Io sto a sentirlo: ma lui, chi può dire
se lo vede sul serio, lì dov’era,
con le quattro Sorelle di ghisa, le spallette
sul buio del Naviglio? Ma sì, è buio,
i coni d’ombra oscillano, il respiro
del Naviglio interrato striscia d’ombra
sulle facciate livide, danneggia
i sopralzi, restaura i cornicioni
bassi di via Mulino delle Armi,
di via Senato, di dov’era il Tombone
di San Marco e nell’ombra, oltre i portoni,
sembra che il vede sollevi la sua groppa
consunta, i giardini fatti a pezzi
dal notaio, spianati dai bulldozer
dei monopoli… Io non gli chiedo di credere
ai miei poveri simboli, all’orrore
dell’ingiustizia anonima, più cieca,
più decorosa. Ma anche quei suoi giochi
con le ombre: e avere pietà
dei morti, sempre dei morti… Forse è questo
che dovrebbe sapere, se bisogna
vivere con i vivi o con i morti.

1955-1959



Commediola

Non che me ne importi molto, sai. Non è mica
obbligatorio. E ho sempre queste cose
di scorta, il rametto da pelare, il profilo
dello scemo da intagliare nel bastone.
Non parliamone più, ti sembra? (Il treno
riparte. Mai più buio di così.

1960-1961



Il cotto, il vivo

Dopo dieci anni tirarli su. A Musocco
c’è bisogno di posto e il posto si fa
mettendo un morto sopra l’altro, sigillati
in un pezzo di muro. Muovere un campo dopo l’altro. Questo mese
il campo 49, dov’era sepolto mio padre. Non vorrai
lasciarlo davvero in questo buco
da incubo: corpo coi mattoni: finirà
che non avrai mai voglia di venire
a trovarlo. Ma lascia stare, non andrei
neanche nel cimitero di campagna
che aveva visto da vivo e credo
che gli sarebbe piaciuto. E poi adesso
chi può più dirlo. Adesso che non vuole
più niente, forse son proprio queste cose
che vuole di meno: la fragranza
dell’erba, la povertà della croce,
il nome schiarito dalla pioggia. Forse ama
di più un pezzo di muro, sente
gli spigoli giusti, le opere delle malta, mischiarsi
sabbia e calce, connettersi il cotto
e il vivo, gli spigoli, le ossa dei vicini…

1962-1965 Le case della Vetra



Le storie

1

Le mie storie. Eh. Mi piacerebbe. Ti piacerebbe
eh? Davvero, grazie. Lasciatemi giù.

2

Lasciami giù esattamente nel punto dove
mi hai trovato, usami, ti prego, questa precisione.

3

Cessi sbilenchi, senza porte: in un posto che era
una mia casa in campagna ma già
con i figli che ho adesso e giusto uno
di loro che gridava non chiudere – ma cosa? Era
già difficile arrangiarsi col poco
che avanzava nel sogno, catini
con via lo smalto, cessi senza porta…

4

S’aggiusta fra i vetri e la tenda fa
finta di non esser più lì – e
prima ancora d’abituarsi al buio
sa da che parte affondano le strade
verso un cuore scaleno di città.

5

Forse (ma forse solo in sogno) m’andrebbe di sapere
chi è l’omaccione pingue, malinconico
che scuote dai miei libri la polvere,
dà il polmone ai miei gatti,
storta chiavi su chiavi nelle toppe…

6

Intervistato dal Benzio vide
Luigi ore 2 disteso come morto
monte Samojata. Impossibilitato
avvicinarlo osservatogli averlo Menarini
visto combattere 4.30 ammise
possibilità svenimento. Scrivo. Indicazioni
eventuali d’ufizio.

1968-1973



Dopo

1

Disegnato col gesso come era
sul marciapiede il mondo si cancella.
Mi vedo perdere colpi, avere pietà
del questore giustiziato, del carabiniere in salita.

2

Con la leggerezza di uno che sogna d’esser vivo
dopo lo scatto degli otturatori
strappo cellophane, buio
dall’arabia frizzante del mattino.

3

Mi sveglio per te, non per la luce.
Nella foresta meccanica saltano vive
le lepri, vortica carnoso
l’enorme sussiego del pavone.

1972 Cadenza d’Inganno



Canzonette mortali

Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro
e solo del futuro, di nient’altro
ho qualche volta nostalgia
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’essere tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere.

Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.

Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
dopo l’altro ti lascio, anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo, intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero, m’incanto…

Non questa volta, non ancora.
Quando ci scivoliamo dalle braccia
è solo per cercare un altro abbraccio,
quello del sonno, della calma – e c’è
come fosse per sempre
da pensare al riposo della spalla,
da aver riguardo per I tuoi capelli.

Meglio che tu non sappia
con che preghiere m’addormento, quali,
parole borbottando
nel quarto muto della gola
per non farmi squartare un’altra volta
dall’avido sonno indovino.

Il cuore che non dorme
dice al cuore che dorme: Abbi paura.
Ma io non sono il mio cuore, non ascolto
né do la sorte, so bene che mancarti,
non perderti, era l’ultima sventura.

Ti muovi nel sonno. Non girarti,
non vedermi vicino e senza luce!
Occhio per occhio, parola per parola,
sto ripassando la parte della vita.

Penso se avrò il coraggio
di tacere, sorridere, guardarti
che mi guardi morire.

Solo questo domando: esserti sempre,
per quanto tu mi sei cara, leggero.

Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce.

1982-1983



Nel decomporsi chissà

Nel decomporsi chissà
che rumore fa il cervello
e che scintille se già
così assordante è il rovello

d’essere, ecco, la metà
dell’annegato, il fratello
siamese di chi non ha
più volto nel mulinello

insieme a precipizio vivi
travolti da un’atassia
divina e a un divino niente

centuplicata la mente
flottando morti nella scia
fulgida dei sedativi.



O cari infinitamente, spariti

O cari infinitamente, spariti
dal tempo, non dai sogni, precursori
nostri nelle tenebre, voi se fuori
del buio c’è ancora buio o a più miti

consigli lo riducono I bagliori
senza gloria, gli stenti, intirizziti
aculei d’un’alba (e, ascoltando, arditi
bisbigli) voi soli potreste, a onore

d’un altro vero, dirci, amate teste,
torsi venerati, e non dite mai,
mai! perché sia intera la libertà
del nostro arbitrio, perché non celeste

ma cieca e folle e sanguinosa sia
intanto, nell’orto, qui, l’agonia.



Cerco qualche volta di immaginare

Cerco qualche volta di immaginare
la felicità, mia e dei morti, e mi sembra
che sia la vita. Forse perché chiare
nella luce che già un po’ s’insettembra

sono adesso le cose e a meno amare
vertigini trascina e tanta assembra
più pazienza, più requie il declinare
del tempo è come se da queste membra

arse e dilaniate l’immensa salma
del mondo risorgesse in una calma
radiosa e stesse al cuore assaporare

l’infinito dolcissimo ritardo
del bene, e sentire l’Olona e l’Ardo
per come si chiamano risuonare.

Ogni terzo pensiero, 1993



Niente sarà mai vero come è

Niente sarà mai vero come è
vero questo venticinque dicembre
millenovecentonovantatré
con il suo tranquillo traffico d’ombre

pe corsie e sale e camerate ingombre
di vuoto e il fiume dei ricordi che
rompe gli argini in silenzio. E’ in novembre,
lo so, vuoi che non lo sappia? per te

che si semina dolore, il più forte,
il più contro la vita – ma se viene
solo ora al suo compimento di morte

e di lì a un’altra nascita conviene
far festa qui, bruciare qui le scorte
di incenso e febbre al turno delle pene.



Stare coi morti, preferire I morti

Stare coi morti, preferire I morti
ai vivi, che indecenza! Acqua passata.
Vedo che adesso più nessuno fiata
per spiegarci gli osceni rischi e torti

dell’assenza, adesso che è sprofondata
la storia… E così tocca a noi, ci importi
tanto o quel tanto, siano fioco o forti
i mesti richiami dell’ostinata

coscienza, alzare questa poca voce
contro il silenzio infinitesimale
a contestare l’infinito, atroce

scempio dell’esistente… (Al capitale
forse è questo che può restare in gola,
l’osso senza carne della parola.)



Mi sono distratto – oh, per poco, appena

Mi sono distratto – oh, per poco, appena
quaranta, cinquant’anni – e mi ritrovo
di colpo, gli occhi abbarbagliati, in piena
vecchiaia, mia e del mondo. Niente è nuovo,

ora che le vivo, più delle cose
che ho vissuto aspettandole, aspettando
la vita, più delle, ma sì! famose
rose che ho colto come in trance, macchiandomi

spesso e volentieri, di sangue… Eppure
c’ero anch’io quella volta, era il mio cuore,
erano I miei nervi, le mie giunture
a tremare di gioia e di terrore

per la tua venuta, sono sicuro
d’esserci stato – o era già il futuro?



Svegliami, ti prego, succede ancora

Svegliami, ti prego, succede ancora
d’implorare in un sogno a questa tenera
età, aiutami, fa’ che non sia vera
l’oscena materia del buio. Sfiora

allora davvero una mano il mio
corpo assiderato e di colpo so
d’averti chiamata e che non saprò
più niente.

Quare tristis, 1998

per il Centro Studi Franco Scataglini Ancona, 2002